mercoledì 18 dicembre 2024

Rojava sotto tiro. E la questione ci riguarda

https://ilmanifesto.it/kobane-sotto-tiro-e-la-questione-ci-riguarda

L'AUTOGOVERNO Resistendo al terrore e costruendo fra infinite difficoltà un ordine democratico ed egalitario, i curdi ci hanno insegnato la perseveranza. Oggi non si parla solo del tradimento della loro causa, ma anche del tradimento della nostra


Francesco Strazzari


Inverno 2014: si combatte a Kobane, con le difese curde schiacciate fra l’avanzata dell’Isis e il confine turco, pattugliato da militari compiacenti con i jihadisti. La Siria del dopo-Assad nasce anche nella Kobane che viene nuovamente assediata, dieci anni dopo la decisione di Obama, incalzato dall’opinione pubblica di mezzo mondo, di intervenire dalla parte di chi si mostrava capaci di resistere al dilagare di un terrore che pareva inarrestabile. Lo stesso che vendeva sul mercato degli schiavi le bambine curdo-yazide sopravvissute al genocidio. Lo stesso che, mesi prima aveva esibito quale monito all’ingresso di Azaz, fra Aleppo e la Turchia, quattro teste mozzate di curdi, inaugurando la stagione dei tagliagole. I curdi, male armati, sembravano allora una brigata di autodifesa contadina.

Le cose però cambiarono in fretta: arrivarono volontari e volontarie da ogni parte, e le sevizie piegavano le combattenti attratte dalla vocazione paritaria del confederalismo democratico curdo, le quali affluivano anche da oltre confine. Si stima che i curdi siriani abbiano pagato un tributo di 15.000 morti nella campagna contro lo Stato Islamico: fin dentro la roccaforte di Raqqa, fino a condurre le forze speciali Usa a eliminare il califfo al-Baghdadi sul confine turco. Con le poche risorse di cui dispongono, le Syrian Democratic Forces (Sdf), nerbo militare dell’autogoverno a guida curda, si sono trovate a gestire decine di migliaia di prigionieri sopravvissuti all’ultima battaglia dell’Isis, schiacciate fra il rifiuto degli stati ad accettarne il rimpatrio e i continui tentativi di ribellione.

Si suppone che il nuovo califfo dello Stato Islamico si nasconda oggi lontano dal Levante, probabilmente nel Puntland somalo. Giorni fa, Isis ha ucciso un ministro dell’Emirato afghano, un eroe di guerra talebano appartenente al clan Haqqani. In Siria si appresta a chiudere il 2024 con più di 700 attacchi portati a compimento, tre volte più che nell’anno precedente: azioni sempre più frequenti, sofisticate e non più limitate alle infrastrutture petrolifere nella regione presidiata dalle truppe americane che schierate a fianco delle Sdf. Gli Stati uniti mantengono sul terreno 900 uomini e hanno ben chiaro che, oggi come allora (si pensi alla Libia post-Gheddafi), i miliziani jihadisti agiscono ritagliandosi margini di manovra lungo le linee di faglia di conflitti esistenti: i comandi Usa hanno dichiarato di aver colpito a scopi preventivi l’Isis un’ottantina di volte solo nelle ultime due settimane di caos siriano.


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In parallelo all’offensiva di Hayat Tahrir al-Sham che ha fatto crollare il regime di Assad, si sono mosse a nord le milizie della Syrian National Army (Sna): finanziati dalla Turchia, si tratta in larga misura di paramilitari dal passato jihadista, distintisi per le violenze e le estorsioni nelle regioni siriane controllate da Ankara. Dopo il ritiro delle Sdf da Manbij, città a maggioranza araba sul lato occidentale dell’Eufrate, un cessate il fuoco mediato dagli americani la scorsa settimana ha riportato i miliziani islamisti nuovamente in vista di Kobane. Un’occasione ghiotta per la Turchia di Erdogan, che da anni insiste per una “fascia di sicurezza” di 22 miglia lungo la quale operare dentro il confine siriano contro ‘i terroristi del Pkk’: così le Sna hanno rotto il cessate il fuoco e i turchi hanno iniziato a smantellare il muro sul confine di Kobane, ammassando incursori e artiglieria. Lo scopo è spazzare via l’autogoverno curdo a est dell’Eufrate, prendendosi 120km di confine. Nel fare questo, la Turchia si dichiara pronta a rilevare la campagna anti-Isis in Siria, e muove tutti i fili che controlla nella regione, incluse le fazioni curde tradizionaliste e i clan politici che governano la regione autonoma del Nord dell’Iraq: i cosiddetti ‘curdi buoni’ protetti da Ankara. Intanto i leader «terroristi» del Rojava accettano la nuova bandiera della rivoluzione siriana, si appellano a Trump, chiedendo di fermare Erdogan: non è chiaro se Washington lascerà ai turchi lo spazio aereo di cui hanno bisogno per colpire.

Per sua parte, la ministra tedesca degli esteri, Annalena Baerbock, ha reso omaggio a Kobane e al Rojava, chiedendo a Erdogan di rispettare la sovranità siriana, mentre dall’Italia arriva silenzio.

I capi delle milizie filoturche sono andati a Damasco cercando l’acquiescenza al nuovo uomo forte, al-Julani, che in effetti non pare incline ad una visione decentrata o federale del nuovo ordine politico siriano. I nuovi leader non sono certo semplici emissari di Ankara, ma sono sopravvissuti per anni all’ombra del confine turco. I conti fra le diverse fazioni rivoluzionarie sono aperti e complessi, quantomeno da quando Assad liberò islamisti e jihadisti al fine di avvelenare i pozzi della rivolta contro il regime.

La questione curda abbraccia l’intera regione mediorientale. Ci parla non solo di Turchia e Siria, ma anche dei e delle militanti del movimento Donne Vita Libertà, che l’Iran perseguita fin dentro le città irachene, costringendo alla fuga sui barconi fino alle coste calabresi, fra naufragi-fantasma e arresti con accuse di scafismo. Accanto ai curdi abbiamo visto mobilitarsi in questi giorni altre minoranze siriane, inclusi gli armeni che temono la pulizia etnica già vista nel Nagorno Karabakh.

Resistendo al terrore e costruendo fra infinite difficoltà un ordine democratico ed egalitario, i curdi ci hanno insegnato la perseveranza. Oggi non si parla solo del tradimento della loro causa, ma anche del tradimento della nostra.



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