Papa Ricky esce con un nuovo album, dopo tantissimi anni dal suo ultimo disco di rilievo (Papa Ricky & i Cauti, del 1996). Il cd è prodotto da Lu Professore del reggae salentino, Treble, s’intitola “Villa Barca” ed è distribuito in tutta Italia dalla Self.
Davvero un gradito ritorno per un artista che ha fatto la storia del raggamuffin italiano.
Per l’occasione, riportiamo il capitolo a lui dedicato sul libro di Walter De Stradis (disponibile su arduinosacco.it - in cui l’artista leccese racconta la sua storia, in un’intervista registrata a Canna, provincia di Cosenza, nell’estate del 2011.
Viene difficile pensare a lui come ad una persona dall’animo “punk”.
E difatti, a vedere questo tizio po’ tarchiatello e dalla pelle olivastra, con in testa una coppola bianca ed indosso una camicia giallo canarino, l’impressione è più quella di una comparsa in qualche strano film-commedia sui gangster.
Papa Ricky, “leccese di Lecce”, però a conti fatti -e a sentirlo parlare- sembra un vero punk, in realtà.
E una volta forse lo era in tutto e per tutto, visto che suonava la loro musica.
Nell’intensa conversazione che abbiamo avuto a Canna, provincia di Cosenza (sempre a margine di quell’ormai famosa cena conclusa con un brindisi “verde smeraldo”) è emerso, infatti, che al tizio, di parlare, di raccontare e di citare artisti e storie di questo o quel genere, non gliene cava più di tanto.
Lui è uno che canta (e mangia e beve): che poi siano gli altri a scrivere storie, a stilare classifiche e a disquisire di generi musicali.
Che poi lui stesso, con i suoi exploit raggamuffin dei primi anni Novanta (con la celeberrima e seminale “Isola Posse All Stars“, ma anche e soprattutto in solitaria), abbia scritto pagine importanti della musica “underground” di casa nostra, questo lo sa benissimo.
“Su di me hanno già scritto tre tesi di laurea”, dice, e c’è da credergli, dato che già nel 1993 gli fu dedicato un documentario, diretto da Renato De Maria ed intitolato “Lu Papa Ricky”. Che è poi anche il titolo dell’album che meglio lo rappresenta, uscito nel 1995, e contenente alcune hit memorabili come “Emigrante” e, soprattutto, “A nnatu lu sule“, celeberrima versione raggamuffin-hip hop di “O Sole Mio”.
Questo brano (contenuto anche nella colonna sonora del film “Sud” di Gabriele Salvatores, del 1993) rappresenta ancora oggi una specie di inno di quella che viene definita “Epoca delle Posse”: un periodo (siamo nei primi anni Novanta del Ventesimo Secolo), in cui la musica italiana “scopriva” la musica black, e il reggae e l’hip hop si mescolavano allegramente in un calderone di band, rappers, cantanti, dj’s e sound systems, che mischiavano quelle ritmiche urbane ai loro dialetti, ottenendo il riscontro di pagine e pagine sui giornali nazionali, sebbene in un arco di vita piuttosto breve.
Dopo di allora, uno come Papa Ricky (al secolo Riccardo Povero, classe 1996) ha mantenuto quel che si dice “un profilo più basso” rispetto a tanti colleghi meno titolati. Il suo ultimo lavoro di rilievo va fatto risalire al progetto dub/trip hop/jungle de I Cauti, con cui ha fatto uscire un bell’album di contaminazione nel 1996, “Papa Ricky & I Cauti: 13 Semplici Ricette”.
Recentemente si è dato da fare con la crew dei Bleizone, ma possiamo dire che Ricky (citato con dovizia di particolari anche nel libro del giornalista australiano Tony Mitchell dedicato al Rap non-americano: “Global Noise: Rap and Hip Hop outside the Usa”, Wesleyan University Press - 2002), merita di riconquistare un posto di rilevo nel reggae italiano.
Mentre scriviamo, però, lo stesso artista leccese (che comunque non lesina di esibirsi dal vivo) ci ha annunciato una sorta di “grande ritorno”, con un album nuovo di zecca prodotto da Treble (ex Sud Sound System) che dovrebbe intitolarsi “Villa Barca” e che al momento della pubblicazione di questo libro potrebbe essere già uscito.
Per venire all’argomento principale di questo testo, appunto, e cioè Bob Marley, Papa Ricky ci ha tuttavia confessato di non essere un fan sfegatato dell’artista, considerato che il suo approdo alla musica reggae si è consumato per tutt’altri lidi. Tuttavia, ci ha spiegato di aver comunque appreso molto dalla lezione del cantante giamaicano, specie riguardo al discorso “musica e pulizia”. Ma il capitolo dedicato a Papa Ricky forse è importante per un altro motivo.
La lezione di Bob Marley è andata persa, ci dice. Proprio su questo argomento, infatti, sono arrivate le proverbiali dolenti note, pigiate da Ricky come nessuno aveva fatto, finora, nelle interviste raccolte per questo libro: dopo Bob Marley la scena reggae si è corrotta, anche nella “Giamaica d’Italia“, ovvero il Salento. E non poco.
Suona Reggae … e che sia pulito
«Io vengo da una famiglia di musicisti e di appassionati -attacca Papa Ricky-. inevitabile esserne condizionato: ho un fratello che ascolta hard rock, un altro fratello che è gay ed ascolta David Bowie, ed un padre che è baritono e che ha cantato e si è dato molto da fare.
E così, a metà degli anni Ottanta, mi sono ritrovato a suonare in band che facevano rockabilly e punk. Ad un tratto arriva questo tizio più grande di noi, DJ War, che ci fa ascoltare questa roba qua: il reggae. Quello era il periodo in cui era fico cantare in inglese -per la verità i Litfiba e i CCCP erano già arrivati, ma la moda era ancora quella, se volevi fare l‘underground- e io l’inglese non lo conosco.
E così ti arriva questo reggae, cantato in una lingua che sembra dialetto leccese. Io il dialetto leccese lo parlo bene, e allora mi viene facile esprimermi con questa musica nuova. E’ stato ciò che mi ha spinto a fare reggae, il fatto che mi divertisse e mi venisse facile esprimermi. Non ero quel che si dice “un fruitore” vero di questa musica e Bob Marley lo conoscevo, ma lo associavo ai fricchettoni.
E ti dico di più: io ero comunista-anarchico e i fricchettoni li avevo sempre visti un po’ strani. Certe cose importanti le ho capite solo dopo. All’epoca dei miei esordi col reggae il mio riferimento era più che altro Yellowman (artista giamaicano attivo nel dance hall style e popolarissimo negli anni Ottanta - ndr). Per la verità, coi generi “progenitori” o imparentati col reggae quali lo ska e il rocksteady, avevo trafficato anche prima: da ragazzino -nel 1982/83- ascoltavo abitualmente gruppi come gli Specials o i Madness. Quindi il mio è stato un ritorno: dallo ska sono passato al punk e al rockabilly, per poi trovarmi di nuovo col reggae. Attualmente ascolto di tutto».
«In un personaggio come Bob Marley -prosegue- è difficile trovare qualche pecca, anche se è intuibile che avendo lavorato con una major, anche lui si sia dovuto confrontare con dei meccanismi, per così dire, poco elastici. A me ha lasciato molto, e bene. Per la verità non sono mai stato un suo “devoto”, un suo grande fan che ha ascoltato tutto di lui, ma mi ha impresso nel DNA il suo messaggio di pace. Che è poi anche un messaggio -meglio, un esempio- di professionalità: mi ha insegnato che il reggae è una musica che innanzitutto va fatta bene, e va fatta in maniera sana. Su tutto però, la sua visione “politica” di una società basata sul rispetto e sull’amore è quanto di più ho fatto mio: sono dei concetti ai quali mi sono letteralmente “associato”».
Con la droga è andato tutto a fanculo
Come dicevamo, nel suo racconto ad un certo punto Papa Ricky “scivola” sulla scena italiana. La sua descrizione di certi ambienti, in particolare nel Salento che lui ben conosce, è a dir poco atroce.
«Il reggae e il raggamuffin alla fine lo si può fare, con una major. Sì, si può fare. Io ho fatto un disco con la Virgin (“Lu Papa Ricky” - 1995 ndr) e mi hanno fatto fare quello che volevo. La scena italiana è cambiata, però.
Quando abbiamo iniziato noi c’era quella saggezza, quella involontarietà, la voglia di esprimersi e di emergere. Poi è nato un mondo: si è espanso in tutte le regioni, in tutte le città. Ognuno ha voluto esserne protagonista, e tra i protagonisti c’è chi vuole emergere, fra chi vuole emergere ci sono gli infiltrati, e poi succede che qualcuno diventa famoso.
Questo reggae è diventato una moda. In alcuni posti del Salento è diventato un mondo impossibile, con i proprietari dei locali che sono dei gran magnaccioni e spacciatori di cocaina, e i grandi pusher che hanno investito nel reggae.
Come al solito, se n’è andato tutto a fanculo. Come in ogni genere musicale, tra l’altro. E’ diventata una specie di guerra, ma c’è chi sta ancora combattendo per fare delle cose belle. E se Bob Marley fosse ancora vivo, non ci sarebbe tutta questa merda. Te lo posso assicurare».
raswalter@tiscali.it
bellissimo
RispondiEliminal'articolo si, il disco mi piace meno di altri, c'è meno reggae del solito
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