Pubblichiamo un articolo dell’Avvocato Zaina in merito alle conseguenze dell’avvenuta incostituzionalità della Fini-Giovanardi, in relazione ai condannati in via definitiva, con sentenza passata in giudicato.
Il 29 maggio 2014 costituirà una data di
fondamentale importanza per comprendere se effettivamente la intervenuta
abrogazione di alcune parti del DL 272/2005 e della legge di conversione n.
49/2006 possa produrre un effetto positivo nei confronti di tutti coloro che
sono stati condannati – con sentenza passata in giudicato – in forza
dell’applicazione di tali norme.
La questione è – purtroppo – ben nota. A seguito della declaratoria di incostituzionalità delle
modifiche operate con gli artt. 4 bis e 4 vicies ter, che riverberavano diretto
effetto sul trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 73 (e che unificavano
le pene, quale concreta conseguenza dell’unificazione delle tabelle di cui agli
artt. 13 e 14), la dottrina (ed anche parte della giurisprudenza) ha ritenuto
possibile il ricorso all’istituto dell’art. 673 c.p.p., quale strumento per
provocare la rimodulazione della pena inflitta e passata in giudicato.
Tale norma prevede, infatti, l’attivazione
dell’incidente di esecuzione, nella specifica ipotesi di abolizione del
reato.
Sulla base di un’interpretazione estensiva
dell’art. 136 Cost. e della L. n. 87 del 1953, art. 30, commi 3 e 4, da Cass.
Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011 (dep. 13/01/2012, P.M. in proc. Hauohu, Rv.
252062) si è pervenuti alla testuale positiva conclusione che tale complesso
normativo non consente “l’esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice
della cognizione in conseguenza della applicazione di una circostanza aggravante
che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima. Sicchè
spetta al giudice dell’esecuzione il compito di individuare la porzione di pena
corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la
sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla
specificamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze”.
Dunque, tale pronunzia afferma che la facoltà di richiedere la rimodulazione della sanzione inflitta sulla base di una pena, dichiarata illegale (come avvenuto per la legge FINI GIOVANARDI), si fonda sul disposto della L. n. 87 del 1953, art. 30, commi 3 e 4, la quale presenta una previsione più ampia dell’art.673 c.p.p. e che rimane lo strumento processuale per riproporre la questione al giudice dell’esecuzione.
Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha
esteso, quindi, la possibilità di chiedere la revoca della sentenza passata in
giudicato – attraverso l’attivazione del rimedio processuale previsto dall’art.
673 c.p.p. -, anche nell’ipotesi che attinte dalla declaratoria di
incostituzionalità siano le norme penali incidenti sul trattamento
sanzionatorio, in quanto considerate “analoghe alle norme incriminatrici”.
E’ bene precisare che tale principio è stato
affermato in relazione a seguito della applicazione della sentenza n. 249 del
2010 della Corte Costituzionale, la quale dichiarò la illegittimità
costituzionale dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-bis. (aggravante della
clandestinità).Dunque, tale pronunzia afferma che la facoltà di richiedere la rimodulazione della sanzione inflitta sulla base di una pena, dichiarata illegale (come avvenuto per la legge FINI GIOVANARDI), si fonda sul disposto della L. n. 87 del 1953, art. 30, commi 3 e 4, la quale presenta una previsione più ampia dell’art.673 c.p.p. e che rimane lo strumento processuale per riproporre la questione al giudice dell’esecuzione.
Il citato art. 30, comma 4, ad avviso della S.C.
“si presta ad essere letto nel senso di impedire anche solamente una parte della
esecuzione, quella relativa alla porzione di pena che discendeva dalla
applicazione della norma poi riconosciuta costituzionalmente
illegittima”;
Contro tale orientamento (recepito anche da alcuni approdi successivi: Sez. 2, n. 8720 del 11/02/2011 – dep. 04/03/2011, Idriz, Rv. 249816; Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012 – dep. 22/05/2012, Teteh Assic, Rv. 253338; Sez. 1, n. 40464 del 12/06/2012 – dep. 16/10/2012, Kabi, non massimata; Sez. 6, n. 21982 del 16/05/2013 – dep. 22/05/2013, Ingordini, Rv. 255674) si è schierato un altro e diverso Collegio della stessa Sezione 1.
Contro tale orientamento (recepito anche da alcuni approdi successivi: Sez. 2, n. 8720 del 11/02/2011 – dep. 04/03/2011, Idriz, Rv. 249816; Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012 – dep. 22/05/2012, Teteh Assic, Rv. 253338; Sez. 1, n. 40464 del 12/06/2012 – dep. 16/10/2012, Kabi, non massimata; Sez. 6, n. 21982 del 16/05/2013 – dep. 22/05/2013, Ingordini, Rv. 255674) si è schierato un altro e diverso Collegio della stessa Sezione 1.
La sentenza n. 27640 del 19/01/2012 – dep.
11/07/2012, Hamrouni, Rv. 253383 e Rv. 253384, ha affermato di contro ed
esattamente all’opposto che
1) la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen., che ne ha completamente assorbito la disciplina;
2) Non è soggetta a revoca la sentenza di condanna intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato nè è consentito al giudice dell’esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente”. Il contrasto, così, insorto è stato ravvisato sempre dalla Sezione 1° con l’ordinanza del 31 gennaio u,s.
1) la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen., che ne ha completamente assorbito la disciplina;
2) Non è soggetta a revoca la sentenza di condanna intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato nè è consentito al giudice dell’esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente”. Il contrasto, così, insorto è stato ravvisato sempre dalla Sezione 1° con l’ordinanza del 31 gennaio u,s.
Riepilogati sommariamente i termini della
questione, e doverosamente rilevato che in pendenza della decisione delle SS.UU.
la giurisprudenza di merito si è mossa in ordine sparso (GIP Pisa si è
pronunziato favorevolmente, GIP Milano sembrerebbe essersi pronunziato
sfavorevolmente, altre Autorità hanno rinviato in attesa del pronunziamento di
legittimità), si può solo auspicare che la pronuncia risolutiva il conflitto
ermeneutico interno alla 1° Sezione della Corte di Cassazione, non si ispiri a
meri criteri formali, ma cerchi di privilegiare il profilo sostanziale e
contenutistico che deriva dalla decisione della Consulta.
Optare per un’interpretazione riduttiva – nel senso di circoscrivere la portata dell’intervento dell’art. 673 c.p.p. alla sola abolitio criminis strictu sensu – significherebbe limitare gravemente la naturale efficacia retroattiva della sentenza n. 32 della Corte Costituzionale, privando un elevato numero di cittadini del diritto a ricorrere a rimedi processuali che, seppure in grave ritardo, possono, comunque, parzialmente lenire conseguenze concrete di scelte legislative che si sono rivelate gravemente ingiuste.
Certo il tenore della ordinanza di rimessione non pare orientato in senso favorevole, posto che dal suo esame pare potersi affermare che essa indulge più sui profili avversi, che su quelli favorevoli alla possibilità di interpretare estensivamente l’art. 673 c.p.p. in relazione all’art. 30 della L. 87/1953.
Optare per un’interpretazione riduttiva – nel senso di circoscrivere la portata dell’intervento dell’art. 673 c.p.p. alla sola abolitio criminis strictu sensu – significherebbe limitare gravemente la naturale efficacia retroattiva della sentenza n. 32 della Corte Costituzionale, privando un elevato numero di cittadini del diritto a ricorrere a rimedi processuali che, seppure in grave ritardo, possono, comunque, parzialmente lenire conseguenze concrete di scelte legislative che si sono rivelate gravemente ingiuste.
Certo il tenore della ordinanza di rimessione non pare orientato in senso favorevole, posto che dal suo esame pare potersi affermare che essa indulge più sui profili avversi, che su quelli favorevoli alla possibilità di interpretare estensivamente l’art. 673 c.p.p. in relazione all’art. 30 della L. 87/1953.
Il dogma dell’intangibilità del giudicato, tesi
propugnata da chi nega l’accesso del condannato all’incidente di esecuzione,
deve essere superato dalla vitale esigenza di garantire una giustizia giusta
anche, necessità che si estrinseca, soprattutto, in relazione alla pena (ed al
suo quantum), che è segno evidente sia della pretesa retributiva dello Stato
(che deve apparire proporzionata al fatto ed alla persona), sia alla prospettiva
di riabilitazione e reinserimento del soggetto.
Non si tratta di aderire a tesi “buoniste”,
quanto piuttosto di penetrare in profondità il tema della complessività della
norma, non riducendo la valenza della stessa al solo precetto, si da
circoscrivere la forza incriminatrice della stessa a tale componente.
La pena, quale manifestazione ab externo,
istituzionale e codificata, del potere punitivo dello Stato, direttamente
correlata alla violazione del precetto,costituisce componente essenziale della
norma e non può assumere una valenza subordinata.
La decisione che determini la sua abrogazione,
anche se quale effetto consequenziale riflesso di un giudizio di
costituzionalità più ampio, incide indelebilmente sulla struttura della
norma.
Tale effetto non può non investire anche il
giudicato, in quanto modifica sostanzialmente e radicalmente la norma.
Non riconoscere, quindi, al condannato definitivo, il diritto potestativo di chiedere la rimodulazione di un trattamento sanzionatorio, fondato su di una pena illegale, facoltà che, invece, viene riconosciuta a chi ancora imputato non si trovi nella fase cognitiva, significherebbe il triste trionfo della algida forma e la vanificazione degli effetti reali e del più profondo significato della sentenza n. 32.
Non riconoscere, quindi, al condannato definitivo, il diritto potestativo di chiedere la rimodulazione di un trattamento sanzionatorio, fondato su di una pena illegale, facoltà che, invece, viene riconosciuta a chi ancora imputato non si trovi nella fase cognitiva, significherebbe il triste trionfo della algida forma e la vanificazione degli effetti reali e del più profondo significato della sentenza n. 32.
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