Online l'instant book dell'ex leader di Lotta Continua
43 anni-Piazza Fontana, un libro, un film
Scrivo alla fine di marzo del 2012. Sono passati, dal 12 dicembre 1969, 43 anni, poco meno. 43 anni, poco più, è nel 2012 l’età media degli italiani. (Però l’età media del governo in carica supera i 63 anni. Todo cambia, ma piano). Dunque si può ragionevolmente pensare che il 12 dicembre di piazza Fontana – la strage per antonomasia di una storia repubblicana che dovette coniare il tristo nome di stragismo – sia ormai affare di storici e perciò meno lacerante. Il suo ricordo vivo è riservato a una minoranza di cittadini. I più non erano ancora nati, o lo erano da troppo poco per averne memoria. Interrogati su che cosa sia successo quel 12 dicembre, e per opera di chi, danno risposte raccapriccianti. E però quella materia resta incandescente. Forse non occuperà, fra qualche anno, che un paragrafo modesto, di un tempo strano di guerra fredda, di spie infiltrati e provocatori, di golpisti e rivoluzionari, maschere da soffitta. Ma non ancora. Scrivo quando è appena uscito il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage. Ha il proposito ambizioso di ricostruire la vicenda che va da piazza Fontana, 12 dicembre 1969, all’uccisione di Luigi Calabresi, 17 maggio 1972. Al suo centro sta tuttavia la trama umana che lega, nella scelta degli autori, il destino di due uomini, il ferroviere Giuseppe Pinelli e il commissario di polizia Luigi Calabresi. Anzi, di tre uomini, perché la figura di Aldo Moro vi appare anch’essa legata. È una scelta che comporta una netta forzatura, ma è la meno discutibile, quella più umanamente suggestiva, e più connessa alla parola “Romanzo”. Romanzo di una strage cita, variandolo, il titolo che Pier Paolo Pasolini diede a uno dei suoi articoli più famosi, “Il romanzo delle stragi”, quando lo incluse negli Scritti corsari. Il Corriere della Sera lo aveva pubblicato il 14 novembre 1974 intitolandolo “Che cos’è questo golpe”. Si apriva proclamando: «Io so...». Pasolini vi rovesciava l’accezione comune di romanzo: «Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti». Del film, a me interessa qui l’attinenza con la realtà. Un film di tale impegno, perfino indipendentemente dalla sua qualità, è destinato a far testo sulla vicenda che racconta. Per questo ne scrivo. E anche perché il film si dichiara “liberamente ispirato” a un libro nel quale i “riferimenti a fatti e persone reali” sono spaventosamente “inesatti”. Gli autori hanno voluto segnare una distanza dalle tesi particolari del libro, e del resto il film se ne è discostato su punti essenziali. Il libro sostiene che Valpreda andò a deporre una bomba, benché nelle sue intenzioni solo dimostrativa, nella banca di piazza Fontana. Che Pinelli era a parte di un progetto di attentati simultanei, benché nelle intenzioni solo dimostrativi, e intervenne quel pomeriggio nel loro svolgimento. Che Calabresi era nel suo ufficio quando Pinelli ne fu defenestrato, e forse fu lui a “metterlo nell’angolo con impeto”. Il film ha ripudiato queste opinioni. Tuttavia in una scena finale – la più arbitraria, ai miei occhi: quella del dialogo fra Calabresi e il capo degli Affari Riservati, D’Amato – il film ha mantenuto la tesi principale sulla quale il libro è costruito, secondo cui nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura, e negli altri attentati che la accompagnarono e la precedettero, si attuò una strategia della estrema destra eversiva e degli apparati segreti italiani e stranieri consistente nel “raddoppiare” tutto: due bombe, due borse a contenerle, due attentatori. Uno anarchico, l’altro fascista. Uno intenzionato a fare il botto, l’altro a fare morti. Considero questa tesi insensata, e nelle pagine che seguono lo argomenterò. Il film, avendo conservato questa tesi e avendola – grazie al cielo – spogliata dell’attribuzione agli anarchici delle bombe “innocue”, l’ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d’ordine o parafasciste che “raddoppiano” bombe fasciste. Il libro uscì nel 2009, si intitola Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie), l’autore è Paolo Cucchiarelli. Offriva “finalmente la verità sulla strage”. Nella riedizione del 2012 viene promosso come “il libro che ha ispirato il film”. Alla luce del film finito (ha avuto infatti una lavorazione travagliata) la fascetta pubblicitaria sulla ristampa dovrebbe dire piuttosto: “Il libro che non ha ispirato il film” – salvo quel tic del Raddoppio universale. Quando il libro uscì, era così pieno di errori di fatto e di interpretazioni oltraggiose che preferii ignorarlo, benché una gran pagina sul Corriere della Sera ne lanciasse sconsideratamente la rivelazione: «Due borse, due bombe...». Ho cambiato idea. Dopo il lancio del film, persone stimabili e autorevoli, ma ignare, sono state indotte a raccomandare le scoperte del libro. Intanto, procedendo nello smascheramento del Raddoppio Universale, Cucchiarelli lo andava già estendendo alla strage di piazza della Loggia a Brescia, 1974: «Un fascicolo è aperto a Milano e si sta scandagliando l’ipotesi della doppia bomba anche a Brescia». Questo libriccino dunque non fornisce una ricapitolazione né un’interpretazione complessiva – abbastanza assodata, del resto – della sterminata materia della “strage di Stato”. Vuole invece confutare una tesi dissennata che diventa pigramente, nel medio evo della fiction, la nuova vulgata su Piazza Fontana. La “bomba doppia”: un’assurdità bevuta con naturalezza. Nel film, raccontata come una favola dal poco fiabesco capo degli Affari Riservati D’Amato, la tesi suona, oltre che cervellotica, posticcia, e non ne inficia la narrazione. Nel libro è una onnivora superstizione. Dichiaro due mie limitazioni particolari. Della prima è superfluo che avverta: sono stato a mio modo coinvolto negli avvenimenti di cui si tratta, sono stato condannato, come l’ultima scritta del film ricorda, per l’omicidio di Calabresi. Dunque nel confronto fra testimoni e studiosi sto piuttosto dalla parte dei primi, e tendo a concedere al contesto più che non faccia chi, venendo dopo, può più leggermente ignorarlo. Si è discusso del modo in cui è presentata nel film la feroce campagna di Lotta Continua contro Calabresi. Io ne ho detto tutto quello che dovevo dirne, da ultimo nel mio La notte che Pinelli (Sellerio, 2009). Qui non ci tornerò. La seconda limitazione è praticamente influente: ho studiato meglio che ho potuto la documentazione che riguarda la vicissitudine di Giuseppe Pinelli, e ho maneggiato la prima documentazione sulla strage nella parte pertinente con quella vicenda. Sul resto, ovvero il milione (sul serio: come Marco Polo) di fogli, atti e testimonianze varie riguardanti l’estenuante sequela successiva di indagini e processi per la strage, sono appena un lettore medio, e mi guarderò dal simulare una competenza che non ho. Vedo che Marco Tullio Giordana, regista del film, si è trovato anche lui in modo diversissimo dal mio, s’intende – nella duplice veste di testimone e di “storico”. Ha dichiarato un investimento autobiografico forte fino al pianto: «Il fatto è che io Calabresi l’ho conosciuto. Quando da studente ho occupato il mio liceo, il Berchet. È arrivato questo signore serissimo, gentile ed elegante, circondato da sbirri minacciosi, che non aveva l’aria del poliziotto e ci dava del lei, ci trattava come figli. A me fece una specie di paternale: ma come, lei, figlio di una vedova e con quattro fratelli, che grazie ai sacrifici di sua madre ha la possibilità di studiare, si mette a occupare! Uscii dall’interrogatorio con le lacrime agli occhi». Giordana spiega che aveva sempre desiderato raccontare questa storia e sempre rinviato, fino a che: «Un giorno ho letto che gli studenti dei licei milanesi credevano in maggioranza che le bombe le avessero messe le Brigate Rosse». Una notizia come questa mi aveva spinto a scrivere su Pinelli. Un sondaggio condotto nel 2006 fra mille studenti delle medie superiori di Milano appurava che gli studenti che dicevano di aver sentito parlare della “strage di Stato” erano il 58 per cento. Il 42 per cento la attribuiva alle Brigate Rosse, il 39 alla mafia, il 22 agli anarchici, il 18,6 ai fascisti, il 4,3 ai servizi segreti. Almeno queste percentuali ora cambieranno. Qui mi occuperò di un certo numero di fatti, dei loro documenti, dei loro travisamenti. E degli sconfinamenti dai fatti alle illazioni e alle insinuazioni. Il mio libro su Pinelli è propriamente l’antefatto delle osservazioni qui avanzate. Poiché non posso attribuirne la conoscenza a lettrici e lettori, ne allego in appendice le pagine che trattavano minuziosamente l’alibi di Pinelli, che anche qui mi sta specialmente a cuore. In fondo troverete anche una cronologia, e un sommario indice dei personaggi ricorrenti. Scaricabile da qui
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