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Gli Stones hanno sempre tenuto con la Francia un rapporto privilegiato e i francesi li hanno più volte ripagati. Sono sempre stati più popolari dei Beatles e la band li ha ricambiati suonando anche in occasioni particolari, come la data all'Olympia di Parigi nel 1995 per uno dei tre concerti del Totally Stripped e lo show a sorpresa per pochi intimi nel 2012. Come dimenticare, poi, i loro trascorsi sulla Costa Azzurra ai tempi di Exile On Main Street , ragione per cui mi è sembrato opportuno scegliere Parigi per questo No Filter Tour, pur consapevole che non sarebbe stata una passeggiata in termini economici. Anche in questo caso la ville lumière non ha perso occasione per celebrarli, tre concerti nel giro di una settimana, mostre sparse per la città come quella di Dominique Tarlé (Stoned In Paris) a la Galerie de l'Instant, vendite speciali del loro merchandising nello store Colette in Rue St.Honoré, articoli sui quotidiani e in Tv, gente dappertutto proveniente da ogni dove con le loro t-shirts, le loro felpe, i loro berretti. La linguaccia dappertutto. Suonarono a Parigi la prima volta nel 1964 e Mick Jagger con un perfetto francese usato per tutto lo show non ha tardato a ringraziare i quasi 40 mila accorsi la sera del 22 ottobre alla U Arena, seconda data parigina dopo quella inaugurale del 19.
I loro show sono stati scelti per inaugurare la modernissima U Arena di Nanterre, a pochi passi dal Grande Arco della Défense, opera dell'architetto Christian de Portzamparc, uno spazio che verrà adibito in futuro a spettacoli e soprattutto ai match di rugby del Racing 92. Serata fresca con qualche piovasco, la seconda data parigina (ce ne sarà una terza il 25) è presa d'assalto fin dal tardo pomeriggio, qualche ora prima dell'apertura dei cancelli prevista per le 18. E' facile arrivarci, la metropolitana e la RER A vomitano gente a ripetizione, sono sul luogo in orario ma la ressa davanti alle entrate del parterre è scoraggiante. Security, sbarramenti, polizia e soldati armati fino ai denti non fiaccano la voglia di Stones ma se i controlli preliminari sono veloci e sbrigativi non altresì si può dire della calca per entrare nel parterre, o come viene segnalato dal biglietto, nella fosse. Passa più di un'ora ed il mio avanzamento pigiato nella calca si misura in centimetri, non capisco cosa succeda là davanti e come venga gestita la fila, se ci sono dei corridoi e perché il tutto sia di una lentezza esasperante. Sale il nervosismo e avverto una certa ansia, in caso di incidenti le vie di fuga non mi sembrano a portata di mano. Il pubblico attorno ha l'età della responsabilità e nessuno si lamenta ma il tempo passa, la calca aumenta e l'ammasso pericoloso.
Continua arrivare una valanga di gente e mi pare impossibile che il tutto venga sbrogliato prima delle 21, ora dell'inizio dello show. Decido di abbandonare la calca e con i miei due compagni me ne torno verso Le Grande Arche de La Défense, mi infilo in una brasserie di un hotel e mi sbaffo hamburger, patatine e birra seduto e al caldo. Decisione saggia visto che non è nelle mie intenzioni arrivare a ridosso del palco, ho una certa età ed è ormai lontana da me l'equazione rock uguale sacrificio. Ritorno un'ora e mezza dopo, verso le 20.40, piove a dirotto ma ormai sono entrati tutti ed in un paio di minuti sono dentro nella fosse. Che è un altro vivere, spaziosa offre un ottima visuale anche se distanti dal palco, con la possibilità di muoversi come si desidera perché c'è tanta gente ma anche tanto spazio. Mi posiziono alla perfezione ed in più mi sono evitato il gruppo supporter che da quanto mi dicono amici fidati suonavano grevi e lavoravano a volumi impossibili. La U Arena all'interno è una sorta di Forum milanese moltiplicato per tre ma mancante di una curva, una sorta di grande U. Il pubblico, oltre allafosse, può accedere sui lati e su una sola curva perché l'altra non esiste ed è occupata dal palco e dagli schermi. Tutti godono di una buona visuale, ci sono quasi quarantamila persone ma la situazione è ottimale. Alle 21 esatte si spengono le luci, si accendono gli schermi e parte una Jumpin' Jack Flash tostissima e senza fronzoli. Sono venuto a Parigi più per affetto che per meravigliarmi di un nuovo grande concerto degli Stones, ho letto critiche a non finire sulle loro esibizioni del No Filter Tour e quel poco che ho ascoltato su youtube non era confortante. Ma non sono né drogato né bevuto e dopo un paio di brani tra cui la nellcotiana Tumbling Dice ed una miracolata e funky Dancing With Mr. D, ripescata dall'archeologico Goats Head Soup mi meraviglio di come questi pensionati patetici e stanchi (termini letti in occasione dei loro ultimi show) siano ancora una rock n'roll band che suona con l'energia e la grinta di chi tuttora nonostante gli anni, la fatica e i soldi crede nella propria musica ed è rispettoso del proprio pubblico. Valter che mi sta di fianco e li ha visti a Monaco mi dice che già dall'inizio è un concerto tutto diverso e il tiro è un altro. L' aver iniziato con Jumpin' Jack Flash e non con la sinuosa e dondolante Sympathy For The Devil è una scelta azzeccata.
E' subito rock n'roll e di quello torrido, da maneggiare con cura. Sono furbi gli Stones, i brani sono più o meno gli stessi delle altre date del tour ma loro ne cambiano la sequenza e scombinano il copione, come se facessero il gioco delle tre carte. Quando arrivano i due brani estratti da Blue and Lonesome, accompagnati dalla coreografia black and blue degli schermi, la conferma è definitiva. Questo è uno show della madonna. Mick Jagger è qui protagonista ed è palpabile il fatto che sia stato lui a volere fortissimamente Blue and Lonesome , nonostante il blues sia storicamente appannaggio di Richards. Le sue versioni di Hate To See You Go di Little Walter e Ride'Em On Down di Jimmy Reed sono blues al midollo, viscerali tanta è la forza che Jagger ci mette con la voce, l'armonica, l 'interpretazione. Splendidi. Un po' di delusione subentra quando viene selezionata la canzone "del pubblico", per me Angie rimane una canzone alla Beatles buona per qualche lentaccio giovanile guancia a guancia, niente a che vedere col sesso dei Rolling Stones. Il quadro cambia con You Can't Always Get What You Want sempre meno gospel e più rock-soul, cantata dall'intera U Arena e supportata dall'oscuro ma sublime lavoro alle tastiere di Chuck Leavell, regista di seconda fascia, ed una strepitosa Paint It Black una sciabolata dark-metal da lasciare senza fiato e storditi, con la coreografia nera che avvolge il palco e manda tutti in uno scenario cruento e luciferino. Fantastica, tra i brani topici dello show. ConHonky Tonk Women si assiste ad una delle graziose stecche di Keith Richards. Come per la rombante Street Fightin' Manamplifica la chitarra con un volume da far male alle orecchie, il riff c'è ma è l eccellente Ron Wood a riprenderlo e portarlo avanti con più pulizia. Keef in qualche frangente sembra come una bicicletta assistita, firma il riff, lo tira ad un volume altissimo, poi entra Wood a portarlo avanti. Ma quando Keith Richards concede la seconda delle due canzoni cantate da lui (dopo Happy) viene quasi da piangere tanta è la commozione generale. La versione di Slippin' Away è dolente, intensa, conquistata nota dopo nota, c'è tutta la sua sofferenza e la sua vecchiaia, inginocchiato sulla sua chitarra oscilla attorno a quel soul agro, fragile e malinconico, ma quanto sentimento, quanta emozione, quanto amore. Da incorniciare, l'U Arena lo ripaga con un applauso che sembra non finire mai e lui si commuove.
C'è o affiatamento e calore sul palco, Wood scherza con Jagger, Charlie Watts è impassibile nel suo composto drumming, Richards fa il sornione, la corista, volenterosa, si sforza di far dimenticare Lisa Fisher, il sassofonista fa il suo dovere, Darryl Jones è a suo agio come mai l'ho visto così. Risale in cattedra Mick Jagger con Miss You e quelle malizie dance da Studio 54 che i coloratissimi disegni sugli schermi sottolineano, Darryl Jones va alla grande col suo basso ma è una lunga, delirante e jammata Midnight Rambler, un tour de force tra rock, blues e fiotti di sangue, ad incoronarli Re di Parigi e fugare ogni dubbio. Questi Stones del nuovo decennio sono decisamente migliori di quelli visti, almeno da me, negli anni duemila, soprattutto a Milano nel 2003 e nel 2006. Lo show sembra meno studiato e calibrato, c'è più urgenza ed estemporaneità, ci sono più imperfezioni ma anche più energia e spontaneità, meno attenzione alla veste e più alla sostanza. Sarebbe ora di chiudere i riferimenti col passato (grandioso) e accettare il loro presente perché loro sono arrivati ad oltre settanta anni stando sempre sul palco osando mettere in scena i loro cambiamenti, le loro debolezze, la loro vecchiaia. E suonano rock n'roll ancora oggi come nessun altro. Certo si può obiettare che Start Me Up zoppichi all'inizio grazie al fatto che Richards ha ciccato l'entrata coinvolgendo anche il cantare di Jagger ma chissenefrega perché a metà il pezzo viene rimesso in carreggiata e quando arrivano Synpathy For The Devil oggi del tutto asciugata da orpelli che non hanno più ragione di esistere tranne quel tambureggiare voodoo all'inizio, e la spericolata e sporca Brown Sugar la festa è ormai al culmine e le francesi ondeggiano sognando di passare una notte insieme con quel signore pieno di rughe che sul palco ha la sfrontatezza di cantare e agitarsi come un trentenne al ritmo del suo boogie eterno. Non ci vuole molto per il bis dopo due ore di grande musica, Gimme Sheltersconta l'assenza della divina Lisa Fisher, con Bobby Keys uno degli handicap rispetto agli Stones del On Fire Tour del 2014. Sasha Allen ci mette volontà ma non ha l'urlo né la carica della sua collega e la canzone ne risente ma ci pensano Jagger, Richards e Wood ad inscenare una lunga, violenta e rabbiosa Satisfaction trasformata in una jam di chitarre sferraglianti da far impallidire i Pearl Jam e chiudere un concerto di puro, nudo e crudo rock n'roll che è una delizia per occhi, orecchie e cuore.
MAURO ZAMBELLINI OTTOBRE 2017
le foto degli Stones sono una gentile concessione di GIOVANNA QUAGLINI
giovedì 26 ottobre 2017
LES ROIS DE PARIS, The Rolling Stones U Arena 22/10/2017 di Mauro Zambellini
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