https://www.huffingtonpost.it/blog/2024/11/10/news/il_capitalismo_sta_mangiando_se_stesso_lindicibile_origine_della_vittoria_di_trump-17685553/?ref=nl-huff-f-week
È l’involuzione finale di un modello economico che ci ha donato un mondo di abbondanza materiale – e per questo dovremmo essergli grati – ma per farlo ci sta trascinando nella deprivazione relazionale
Lo so, non ne potete più delle analisi sulla vittoria di Donald Trump. Vi capisco, è lo stesso per me. “Ha parlato alla pancia dell’America”, “Si è dimostrato autentico”, “Usa un linguaggio semplice”, “Ha incanalato rabbia e risentimento verso le élite”. Ma forse ancora di più negli ultimi giorni si sono affollate le analisi della sconfitta democratica: “Hanno trascurato i lavoratori”, “Biden si è ritirato in ritardo”, “Harris non si è distaccata da Biden”, “Waltz è stata una scelta sbagliata”. Leggendo queste analisi la sensazione, francamente, è di una diffusa inadeguatezza nello spiegare quello che potrebbe essere, per profondità e durata delle implicazioni, il più importante evento storico del XXI secolo fin qui.
Intendiamoci, non che esse siano prive di fondamento. Tuttavia, la sensazione è che lascino il tempo che trovano. Un po’ perché appaiono traboccanti di “senno del poi” – viene sempre da chiedersi quanti commentatori avrebbero dette le stesse cose con la stessa sicumera il giorno prima delle elezioni. Un po’ perché mancano di originalità – si sostenevano più o meno le stesse cose nel 2016. Ma soprattutto, come dicevo, perché non risultano davvero credibili davanti all’enormità dell’evento a cui abbiamo assistito.
Provando a spiegarsi con una metafora, è come se diversi calciatori di una squadra avessero cominciato a segnare nella propria porta e tutti discutessero degli allenatori: dell’incapacità di quello della squadra che si fa autogol e della genialità di quello avversario. Per carità, magari qualche colpa e qualche merito di chi sta in panchina ci sarà anche, ma il fatto eclatante rimane: i calciatori stanno proprio giocando un altro sport, e non si stanno rendendo conto che così facendo stanno perdendo la partita.
Insomma, ci sono due enormità indicibili di fronte ai nostri occhi. La prima, più sopportabile ma comunque rilevante, è che gli schemi e le regole classiche della politologia e della strategia elettorale sembrano saltate o quantomeno fortemente incrinate. È infatti evidente a tutti che i democratici e Kamala Harris hanno osservato e applicato con buona solerzia tutte o quasi le pratiche, le tattiche e i trucchi da manuale su come si dovrebbe fare politica e vincere le elezioni. E Trump invece le ha infrante tutte.
Mentre si discuteva della risata e della capigliatura di Kamala Harris, Donald Trump appariva con un cerone che lo faceva sembrare arancione e ballava goffamente sul palco. Quando si dibatteva se Biden intendesse o no dire che chi vota Trump è spazzatura, quest’ultimo insultava apertamente fasce elettorali cruciali per la sua elezione. Mentre si discettava sulle capacità oratorie della candidata democratica, ai comizi di Trump gli spalti erano mezzi vuoti e la gente se ne andava via prima della fine. Insomma: o le regole del gioco, gli schemi interpretativi, valgono per tutti oppure sono superati, quasi inservibili, e tanto vale farsene una ragione.
La seconda enormità, per certi versi ancor più indicibile, è che il vero problema non sono i politici: sono gli elettori. Peggio, è oramai la maggioranza degli elettori. In realtà qualcuno sommessamente lo sostiene anche, ma appena lo fa viene subito tacciato – magari nemmeno a torto – di insopportabile elitismo se non di anti-democraticità. Gli si replica: come possono milioni di persone essere nel torto e tu nel giusto? Quanto arroganti bisogna essere per sostenere che siano così stupide da votare contro i loro interessi? Se la maggioranza vuole Trump è giusto che governi; e se ti opponi sei tu il despota, il tiranno.
A un livello un po’ più sofisticato, a chi si azzarda a sostenere che il problema sia nella società più che nella politica viene anche replicato così facendo si rischia di essere auto-consolatori; di non vedere le proprie colpe per correggerle o di precipitare nel disfattismo. Ma, di nuovo, l’evidenza non si può aggirare più di tanto. Se una persona affetta da diabete si rimpinza di dolci non ha molto senso discutere se è necessario cambiare terapia farmacologica: il problema è più profondo, ha probabilmente a che fare con le emozioni di quella persona, e va affrontato con lui e con altri strumenti.
Un’altra cosa, infatti, è di tutta evidenza: quello del 5 novembre scorso non è stato un “voto contro”; è stato un “voto pro”. Un voto a favore di un candidato che ha detto apertamente e più volte di non voler accettare alcun risultato elettorale a lui contrario; di volersi comportare come un dittatore (anche se solo per un giorno); di usare l’esercito contro gli oppositori interni; di utilizzare il potere presidenziale per il proprio tornaconto personale. E non è che stavolta si può sostenere che siano solo provocazioni, perché tutte queste cose le ha almeno in parte già fatte nel precedente mandato.
Né si può davvero far finta di non vedere che scegliendo Trump molte persone hanno votato contro i loro stessi interessi. Basti un aneddoto: l’amministrazione Biden ha lottato duramente con l’opposizione repubblicana per concedere un sostanzioso aumento dello stipendio degli autotrasportatori, riuscendo a vararlo. Cos’è successo? Il leader del sindacato è andato a parlare a un comizio di Trump mostrandogli supporto. Ma si potrebbe anche parlare delle donne e degli immigrati di seconda generazione che votano un candidato che ha dimostrato in più di un’occasione tratti misogini e razzisti, e di tante altre fattispecie locali e particolari.
Di fronte a tutto questo a chi lancia accuse di classismo si potrebbe replicare che proprio ritenere che gli elettori di Trump non siano in grado di capire che fa sul serio vuol dire sostenere che in fondo siano stupidi; che non siano in grado di vedere i fatti e collegarli con le parole. No, sapevano cosa votavano. Il punto piuttosto è questo: fare qualcosa di controproducente per sé stessi non vuol necessariamente dire essere sciocchi. Farsi del male può essere – e forse è sempre – un modo per esprimere un disagio, e magari chiedere inconsciamente aiuto. Secondo un rapporto Gallup, quasi un terzo della popolazione statunitense è stato o è clinicamente depresso.
Qual è allora questo bisogno insoddisfatto che crea tanto dolore intimo? La relazione; il senso di non appartenenza. Il 30% degli americani si è sentito solo almeno una volta a settimana nell’ultimo anno. Il numero di statunitensi che vivono soli è ai massimi di sempre. E d’altronde, come stupirsene? Tutti i corpi intermedi tra individuo e Stato – associazioni, sindacati, partiti, parrocchie, persino le famiglie – si stanno svuotando e indebolendo. La diffusione dei media sia di massa che digitali aumenta i filtri alle relazioni e la distanza dall’altro. Il mercato spinge in maniera sempre più aggressiva verso il consumo individuale, la comodità domestica, l’interesse personale.
Qual è allora l’indicibile, abissale causa del successo di Trump? È l’involuzione finale del capitalismo, che ci ha donato un mondo di abbondanza materiale – e per questo dovremmo essergli grati – ma per farlo ci sta trascinando nella deprivazione relazionale. Il progresso scientifico e tecnologico ci offre comodità e rassicurazioni sempre più diffuse ed efficaci, sottraendoci sì a problemi e conflitti ma proprio per questo svuotando il nostro agire di senso e le nostre giornate di rapporti.
Insomma, per soddisfare i nostri materiali e funzionali stiamo soffocando i nostri bisogni sociali ed emotivi. Per trovare consolazione alle nostre preoccupazioni ci stiamo rifugiando in un solitario e stordente intrattenimento disfattista. L'esito è che oramai la maggioranza delle persone è così centrata su sé stessa, così convinta che il domani non porterà nulla di buono, che il bene comune e la costruzione di un futuro migliore per loro non è più né una priorità né un'ambizione. Da qui la tristezza privata che diventa rabbia, e il bisogno di appartenenza che diventa adesione incondizionata a qualsiasi cosa che prometta di scuotere dalle fondamenta un modello che ci sembra una trappola, anche se siamo noi a girarne la chiave dall'interno.
Il significato più profondo e indicibile della vittoria di Trump è quindi che il modello socio-economico che ci ha portato fin qua sta mangiando sé stesso. Perché lo scopo finale delle comunità è preservare la pace sociale, non perseguire la floridezza. Per millenni le due cose hanno coinciso (difficile andare d’accordo se le pance sono spesso vuote) ma ora si sono disaccoppiate. In termini di salute, di ricchezza, di istruzione, di sicurezza non siamo mai stati così bene; ma in termini di relazioni sociali, di connessioni umane significative, forse non siamo mai stati così male. Ed è da qui, dal curare le nostre ferite sociali prima che economiche e politiche, che dobbiamo ripartire.
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