sentire parlare dei Rolling Stones con lo stesso metro "giudicante" e sborante che Cracco usa con i concorrenti di masterchef o che il vostro idolo Manuel Agnelli usa con quei poveri sfigati di X Factor, mi dà una vertigine che non sapete.
ci sono da dire un paio di cose, poi oguno torni sereno al proprio quotidiano.
certamente non è necessario amare i Rolling Stones, ma è necessario capire bene di cosa stiamo parlando, prima di parlarne.
delle proporzioni, e del sistema solare che stiamo esplorando.
in caso contrario mettiamo solo in mostra la nostra inadeguatezza, e non la loro.
i Rolling Stones hanno suonato musica "elettrica" quando le chitarre elettriche erano ancora una cosa abbastanza nuova. molto più nuova di quanto oggi sia Ableton, proprio come anzianità di servizio dello "strumento", per capirci.
hanno scoperto questi nuovi strumenti, e queste nuove possibilità espressive prendendo come base un suono che esisteva, e costruendoci sopra un oggetto sonoro incredibile che, a tutt'oggi, rimane un parziale mistero.
quando Keith e Charlie Watts suonano insieme, succede qualcosa di ritmico paragonabile alla liquefazione del sangue di San Gennaro, soltanto che è vero. c'è una somma dei loro limiti, e della loro naturale predisposizione verso lo strumento, che genera un suono incredibile, mai sentito nè prima nè dopo. fluttuante, palustre, eppure danzante e irresistibile. qualcosa che caracolla, pulsa, sembra procedere per segmenti asimettrici, ma poi non te lo togli più d'addosso.
volendolo spiegare tecnicamente/emotivamente (ma non è il caso) basti dire che il cuore dell'uomo va a tempo ma non è a click, nè in griglia, così come il respiro, così come il passo sulla strada.
e questo gli africani lo sanno bene.
e gli africani d'america che ci hanno costruito sopra il blues, anche.
e lo sa anche Ali Farka.
non lo sanno solo quelli che continuano a vaneggiare degli Stones "fuori tempo" o "imprecisi".
gente che, davvero, bisognerebbe prendere a schiaffoni in assenza di altri sistemi di pari efficacia.
sopra a un miracolo arriva un altro miracolo: Jagger.
un ballerino delle parole, uno sciamano magnetico, un cantante con una voce che arriva dritto per dritto dentro il corpo, che è la somma delle uniche due vere voci possibili: quella del bambino uscito dal ventre della madre, e dell'adulto che in quel ventre vuole rientrare.
contestualmente, è anche uno scrittore di canzoni formidabile, che vicino a Keith raggiunge - banalmente - il massimo possibile di quella forma d'arte.
intorno a loro, gente di enorme talento che a quel miracolo naturale (un vulcano, un'aurora boreale, una foresta, una cascata, she's a rainbow) costruisce un sistema sonoro coerente, applicabile alle "canzoni", aggiungendo spezie, suggestioni, visioni.
tuttavia rimane sempre un fattore di inspiegabilità nel loro miracolo quotidiano.
se pensate che gli Stones "andassero a tempo" o "fossero precisi" quanto il pop richiedeva, anche negli anni '60, provate a sentire il volume delle percussioni, nei mix delle loro canzoni più celebri, rispetto al mix della batteria.
poi dopo, però, ditemi anche chi altro ha fatto delle canzoni così.
la cosa incredibile è che, di fronte al successo che sappiamo, ai soldi che sappiamo, alla vita che sappiamo, gli Stones per 50 anni accettano il loro mistero, restano degli animali sonori selvaggi e non dei pagliacci da "concerto per bene".
rock prima che si parlasse di rock, punk prima che si parlasse di punk, tutto prima che si parlasse di tutto.
sul palco ci sono sempre le viscere, c'è sempre del rischio, del pericolo, c'è sempre un cazzo che vuole entrare da qualche parte, il suono danza sempre sul baratro, per davvero, e questo dal primo concerto fino all'altra sera a Lucca.
si chiama rock and roll, non so se ne avete mai sentito parlare.
suonare davanti a decine e decine di migliaia di persone come se si fosse in un club. lasciando che il suono "succeda", aspettando che "succeda". avendo inteso il significato più autentico del blues che li ha formati, trattando il suono come divinità assoluta, a cui offrire ogni sera il proprio sacrificio.
senza classifiche che non dicono nulla, questo è quello che sono gli Stones e che i Beatles (gruppo stellare e clamoroso, certo, su tutt'altro piano) non sono mai stati.
danzare così vicino al baratro significa conoscere la Vita e la Morte, e metterla dentro al suono.
gli Stones hanno intorno una quantità di morti, di distruzione e di deriva, da fare impallidire chiunque. sono Cavalieri dell'Apocalisse, che ogni volta ci dicono da dove veniamo e dove andiamo, andando a rubare quel fuoco da qualche parte del centro della terra.
e stanno morendo, certo, anche loro.
e con loro portano in scena le loro canzoni che muoiono, e tornano da dove sono partite, a pulsazioni blues primitive, all'astrazione, al gesto puro.
siamo assistendo al tramonto di un'epoca, ad animali mitici che si estinguono davanti ai nostri occhi, portando con loro il loro mistero.
e stiamo qui a parlare di Keith che a 74 anni forse è entrato fuori tempo.
qui ci starebbero sei bestemmie secche, come una volta nei bar del paese.
sentirsi nelle condizioni di "valutare" tutto questo miracolo come fosse l'ennesimo vocalizzo di una cantante talent di questa ceppa della minchia, lascia intendere il disastro che abbiamo tutto intorno.
una dose pericolosa di non avere capito un cazzo.
della musica, dell'arte, della vita.
e di esserne persino fieri.
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