http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/09/20/news/lo-spinello-legale-salvera-l-economia-1.310014?ref=hftipebee-1
Viaggio in Catalogna. Nei social club della marijuana. Dove fumare non è reato. Un modello che contribuisce alla crescita della “weed economy” in mezzo mondo. Dando lavoro a migliaia di persone. Anche italiane
DI GIOVANNI TIZIAN E STEFANO VERGINE DA BARCELLONA
L’ingresso è anonimo, un po’ come per tutti i club in città. Una porta affacciata sulla strada, gli infissi bianchi, il vetro smerigliato a impedire sguardi indiscreti, nessun logo né scritta per indicare che qui si può fumare liberamente marijuana. Siamo a poche centinaia di metri dalla Sagrada Familia, simbolo della Barcellona modernista di Antoni Gaudí, e questo è uno dei tanti cannabis social club nati negli ultimi anni. Dentro, alle 3 del pomeriggio, un’ora dopo l’apertura, ci sono già parecchi clienti. Alcuni rollano in solitaria davanti al bancone, altri stanno al piano superiore a giocare alla playstation. Sedute sui divanetti ci sono anche un paio di signore catalane sulla sessantina. Enrico, 35 anni da Forlì, ci mostra i suoi prodotti dopo aver controllato il documento d’identità. Il menù del giorno è variegato: si va dall’indica alla sativa, dalla hybrid alla kush, e poi le resine hash, iceolator e solvent. «Per creare questo club e avviare una produzione di erba», racconta, «ho investito insieme ai miei due soci quasi 90mila euro, ma adesso gli affari vanno discretamente: incasso circa 1.000 euro al giorno e ho 6 dipendenti che guadagnano 1.100 euro al mese. Salari netti, a cui si aggiungono i contributi pensionistici».
Profitti tolti alle mafie
Dicono le statistiche che in città ci sono ormai 250 club come quello di Enrico. E che la metà è gestita da italiani. Esploso nel giro di cinque anni sfruttando un vuoto legislativo, il fenomeno ha trasformato la Catalogna nell’epicentro europeo di quella che gli esperti di finanza internazionale chiamano già weed economy, l’economia dell’erba. Un pezzo di sommerso che vale miliardi, e che dopo decenni di proibizionismo qualche governo sta iniziando a portare a galla. Prima l’Uruguay di Pepe Mujica, poi la Giamaica e otto Stati degli Usa negli ultimi anni hanno infatti approvato leggi che permettono di coltivare e commerciare marijuana. Proprio gli effetti riscontrati in Nord America, il mercato più ricco, dimostrano che queste politiche funzionano. Non solo perché tolgono soldi alle mafie che controllano lo spaccio all’ingrosso, ma anche perché creano posti di lavoro legali e aumentano le entrate fiscali. La conferma arriva da una recente ricerca della Arcview Market Research, una delle società più autorevoli nel settore, secondo cui negli Stati Uniti l’industria della cannabis ha fatturato l’anno scorso 6,7 miliardi di dollari, dando un impiego regolare a oltre 100 mila persone. Numeri che lo stesso studio prevede in crescita esponenziale. Con stime di fatturato da oltre 20 miliardi di dollari tra soli quattro anni e altri 250mila occupati. Sono tassi di crescita superiori, tanto per fare un paragone, a quelli del comparto delle tv via cavo negli anni ’90 o delle dot.com nei primi anni 2000. Questi dati non stupiscono se confrontati con il totale di fumatori di cannabis nel mondo stimati da Unodc, l’agenzia Onu specializzata nel contrasto ai traffici di droga. Ebbene secondo tali stime i consumatori di erba e hashish ammontano a oltre 182 milioni, quasi un milione in più dell’anno precedente. Più o meno 20 milioni si trovano in Europa. Insomma, la domanda, di certo, non è un problema. Il volume d’affari è di svariati miliardi di euro. Profitti che accrescono imperi del crimine globale.
Passione alla luce del sole
L’ottimismo distillato nei report finanziari d’Oltreoceano si comincia a respirare in Catalogna. Secondo la Catfac, la federazione locale delle associazioni cannabiche, i social club della regione danno lavoro a 3.000 persone, tanto che il principale sindacato spagnolo, la Ugt, si sta interessando per creare un contratto di lavoro dedicato alla categoria. Samuele, 41enne romano, zazzera brizzolata raccolta in un codino, ha aperto il suo club un anno fa vicino al Camp Nou, lo stadio del Barcellona. «Prima coltivavo e vendevo marijuana in Italia, oggi finalmente posso realizzare la mia passione qui, alla luce del sole», racconta con l’unica condizione di apparire con un nome di fantasia. Da spacciatore a imprenditore, da coltivatore illegale a contribuente modello. Nel suo club lavorano infatti cinque persone: sei ore e mezzo al giorno per una paga netta di 900 euro. «È un business redditizio», dice, «ma i rischi sono tanti, a partire dal fatto che qui, a differenza degli Stati Uniti, quello della cannabis non è ancora un settore pienamente legalizzato».
In effetti, nonostante i social club siano ormai una realtà consolidata in Catalogna, finora la loro attività è stata quasi sempre tollerata ma non legale. Per questo negli ultimi anni sono fioriti studi di avvocati specializzati. Come quello diretto da Oriol Casals, tra i primi penalisti catalani a sostenere le tesi delle associazioni anti-proibizioniste. «Sfruttando la legislazione spagnola, che tollera l’uso di marijuana e ne permette il consumo condiviso in luoghi privati, negli ultimi anni molte persone hanno iniziato a creare associazioni per coltivare erba e fumarla tra soci. Il boom è coinciso con il picco della crisi economica spagnola. Forse anche perché tante persone rimaste senza lavoro hanno deciso di rischiare lanciandosi in un nuovo settore», dice Casals. Ogni tanto la polizia è intervenuta, ha fatto chiudere alcuni club che in modo troppo spudorato si erano trasformati in centri di spaccio per i turisti, ma in generale la situazione è stata tollerata dalle autorità. Così è andata fino allo scorso luglio, quando il parlamento catalano ha approvato a larghissima maggioranza una proposta di legge popolare che riconosce ufficialmente i club cannabici come associazioni no profit, regolamenta la quantità massima di marijuana coltivabile annualmente (150 chili) e quella che ogni socio può consumare (60 grammi al mese). Javier, che gestisce un club nel quartiere di Poble Sec, ai piedi del promontorio del Montjuïc, dice che «la legge è sicuramente un passo avanti, anche se restano dei buchi importanti come il fatto che sia ancora illegale trasportare l’erba dal club a casa propria. Il vero problema», spiega «è però capire se il Tribunale Costituzionale non la boccerà, visto che già in Navarra una norma simile è stata respinta perché in contrasto con la legislazione nazionale. Questa possibilità purtroppo mi impedisce di investire altri soldi nell’attività. E anche di rispettare a pieno la nuova legge, che mi obbliga a dichiarare dove coltivo la marijuana. La mia paura è semplice: finire in prigione se la norma catalana verrà bocciata da Madrid».
Indotto d’oro
Seppur temperati dalla speranza di ottenere almeno una maggiore autonomia dal governo centrale dopo il referendum per l’indipendenza (fissato per l’1 ottobre), i timori di Javier sono condivisi da tanti altri gestori di club che abbiamo incontrato in Catalogna. Di certo, quello che è successo negli ultimi anni a Barcellona, così come in altre città della Spagna, ha però già creato un’economia della marijuana. Un’economia forte soprattutto nell’indotto, perché è qui che si rischia poco ma si può guadagnare tanto. Negozi che vendono attrezzatura per coltivare, semi, prodotti cosmetici, libri, cibo, una gamma sterminata di strumenti per fumare. E nata pure qualche azienda tecnologica. La più famosa si chiama Weedmaps, è stata fondata in California nel 2008 da Justin Hartfield, che all’epoca aveva 23 anni e frequentava un master alla University of California, e da tre anni è presente anche a Barcellona. Il business principale è un software, una specie di Tripadvisor della cannabis, dove poter trovare informazioni sui club ma anche comprare prodotti. Seduto nel suo ufficio di Calle Tallers, una traversa de La Rambla, Rodrigo Charles, manager della filiale spagnola, dice che «a livello mondiale il gruppo fattura oggi 72 milioni di dollari al mese, quindi quest’anno dovremmo avvicinarci a un giro d’affari da 1 miliardo di dollari». C’è da crederci: per essere su Weedmaps le aziende del settore sono disposte a spendere anche 20 mila dollari al mese. «Ma in Spagna non facciamo pagare nemmeno un euro», assicura questo ragazzo sui trent’anni, nato in Messico e cresciuto in California, mandato qui dai fondatori del gruppo per sviluppare l’attività nel Paese che considera il più promettente d’Europa: «Abbiamo assunto 13 persone e ormai da tre anni qui stiamo solo investendo: facciamo video promozionali, creiamo iniziative a favore della legalizzazione, cerchiamo di portare il mercato nero sulla nostra app». Investimenti che, evidentemente, l’azienda pensa di poter recuperare presto. E lo stesso deve credere la Deutsche Bank, che sta finanziando Weedmaps in Spagna.
Venti euro a pacchetto
Il business della cannabis legale si sta espandendo a macchia d’olio. Studiosi e attivisti del settore hanno individuato social club, alcuni per ora clandestini altri più o meno ufficiali, in Belgio, Slovenia, Olanda e Austria. I fumatori si prendono i propri spazi. Rivendicano il diritto a uscire dalla clandestinità. Così dove non lo permette la legge ci si arrangia. Per esempio in Germania- dove sono in molti a guardare a questo nuovo mercato con grande interesse - Weedmaps ha di recente inaugurato una sede. Ma c’è anche chi a Berlino si è spinto oltre. Nel quartiere Kreuzberg, a Est di quel muro che un tempo divideva la città e il mondo, è nato il primo social club tedesco. L’obiettivo ufficiale, tuttavia, è coltivare erba terapeutica. Con il tentativo di sopperire alla scarsità di scorte, visto che in Germania è diventato legale l’uso per scopi medici, ma come in Italia le importazioni da Canada e Olanda sono insufficienti. In questo modo il primo social club sperimenta una distribuzione fuori dai circuiti delle multinazionali che hanno in mano il business della terapeutica. Nella vicina Svizzera, invece, da un anno è possibile comprare legalmente marijuana per fumarla. La vendita è concessa a una condizione: la sostanza può contenere al massimo l’1 per cento di principio attivo, il Thc. Strano paradosso per la Confederazione, dove fino ai primi anni Duemila esistevano veri e propri “canapai” che vendevano un prodotto diventato famoso in tutto il mondo per qualità e alto contenuto di thc. Erano numerosi i clienti italiani che varcavano la frontiera nei weekend per rifornirsi nei canapai di Zurigo, Lugano e Lucerna. Entravano e in maniera molto diretta chiedevano la “skunk”. Ufficialmente, però, compravano sacchetti profumati per il bagno. La festa per i turisti della cannabis durò qualche anno. Poi la tolleranza finì. Ora una parziale marcia indietro. Con alcuni grandi marchi della distribuzione che si sono ritagliati un ruolo da protagonisti: per esempio, dal luglio scorso, alcuni supermercati commercializzano pacchetti di sigarette alla cannabis. Le “bionde” Heimat, prodotte dalla startup sangallese Koch & Gsell costano 19,90 euro e sono un misto di tabacco e canapa, con thc inferiore all’1 per cento. Un esperimento che sembra aver ispirato l’italiana Easyjoint.
Fenomeno Easyjoint
A pochi passi dal Vaticano c’è un negozietto che vende erba. Per essere precisi, la cannabis light a bassissimo contenuto di thc, tra lo 0,2 e 0,6 per cento. Un range che la rende “legale”. Per capire, la più potente skunk si aggira tra il 15 e il 25 per cento. Il fenomeno Easyjoint, tuttavia, è la punta dell’iceberg di un percorso di attivismo antiproibizionista più ampio e articolato. Dietro questa sigla, infatti, c’è un vero network di realtà associative. «Il punto di svolta è nel 2016 con l’approvazione della legge sulla canapa industriale» spiega Markab Mattossi, vicepresidente di “Canapa info-point”, «e questa nuova norma permette l’uso della pianta a 360 gradi con semi, però, che non producano infiorescenze con livelli più alti dello 0,6 per cento di principio attivo». Easyjoint non fa altro che imbustare e distribuire l’erba light prodotta da una rete di coltivatori che fa capo a Canapa info point. Una sorta di consorzio che coinvolge 300 persone e 20 realtà territoriali. Su questo business c’è persino il marchio dell’Unione europea, che certifica quali siano i semi a bassissimo contenuto di Thc. Talmente legale e trasparente che Mattossi suggerisce di segnalare la propria coltivazione “light” alle forze dell’ordine: «Un po’ per essere il più trasparenti possibile e un po’ perché così sono costretti a vigilare che nessuno entri per rubare e devastare le piante». In effetti si sono verificati atti di vandalismo e intimidazioni. «È accaduto soprattutto in certe aree», osserva Mattossi. Aree del Mezzogiorno, ad alta densità mafiosa. Segnale che legalizzare infastidisce i clan. Del resto per essere un esperimento Easyjoint può contare su numeri impressionanti. Distribuisce 40 chili a settimana. Un grammo si aggira attorno ai 5 euro, al di sotto dei prezzi proposti nel mercato criminale. Agli italiani, dunque, piace l’erba legale. A Roma, in Parlamento, qualcuno dovrebbe prenderne atto.
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