martedì 4 ottobre 2022

Il popolo degli elfi

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Un modello di società post industriale, post capitalista, sostenibile, compatibile con l’ambiente che (r)esiste da 45 anni sull’Appennino pistoiese. Lo racconta in un libro uno dei suoi fondatori, Mario Cecchi, che abbiamo intervistato

 Redazione 




La Valle degli Elfi è nata nel 1980 da un gruppo di quattro persone che, stanche della vita cittadina decisero di andare a vivere a Pesale, un paesino abbandonato dell’Appennino Tosco-Emiliano raggiungibile solo a piedi. Da quel momento gli Elfi si sono espansi in tutta la montagna, hanno riadattato le case abbandonate e hanno reso quella terra un baluardo di resistenza culturale, umana e naturalistica che incarna il bisogno del genere umano di una riconciliazione con la terra.

Con gli elfi mitologici, gli Elfi dell’Appennino hanno in comune la scelta di vita. Dall’immaginario dello scrittore Tolkien hanno preso il loro nome e quello dei luoghi che abitano (Gran Burrone e Piccolo Burrone), e come loro vivono nei boschi a stretto contatto con la natura, sono profondi conoscitori delle piante, degli animali e degli ecosistemi che governano l’ambiente. Si cibano di tutto quello che la natura gli offre e di quello che producono. 

Avalon, il cui nome deriva dall’isola britannica dove secondo la leggenda sarebbe sepolto Re Artù, è l’unico villaggio elfico che non si trova sull’Appennino tosco-emiliano. Situato nel comune di Monsummano Terme, è decentrato rispetto agli altri villaggi elfici che distano da esso almeno quaranta chilometri. Fondata agli inizi degli anni ’90 sulla collina davanti al borgo di Montevettolini, è l’unica comune degli Elfi che si può raggiungere con la macchina e di cui si può conoscere la posizione contattandone l’indirizzo mail che si trova su Google.


Mario Cecchi, che della comunità è stato uno dei fondatori, ha appena pubblicato “Ritorno alle origini” un libro che racconta la storia di questa esperienza unica e straordinaria in Italia. Così facendo diventa un invito a sperimentare nuove forme di vita in comune nella riscoperta dell’uomo e della natura. Una testimonianza affascinante, perché narrata dall’interno e portatrice di un pensiero davvero alternativo di chi ancora oggi continua a battere strade differenti. Come si evince chiaro dalle pagine, infatti: «Non puoi più tornare indietro una volta libero».



Come si è evoluta la realtà del popolo degli Elfi nel corso della sua storia?


Nell’arco dei nostri 45 anni di vita abbiamo percorso l’evoluzione del genere umano dai primordi dell’esistenza fino a giorni nostri. All’inizio c’era una componente animista che si basava sull’istinto animale di sopravvivenza in cui prevaleva l’energia maschile di coesione e di fratellanza. Poi piano piano si sono andate equilibrando le due energie, maschile e femminile, grazie all’intervento di donne poderose che hanno saputo ribellarsi a quella energia predominante. Così hanno preso corpo altri interessi: la culla delle relazioni e dell’ambiente. Noi non siamo i padroni della terra, ma via apparteniamo, siamo un tutt’uno con essa e con l’energia universale alla quale ritorneremo dopo la transizione temporale in questo corpo.


Per diventare Elfi, bisogna trascorrere almeno un anno nella comune per capire se si è pronti a questo tipo di vita. Oggi chi vuole unirsi a voi cosa cerca?


Verità, semplicità e amore. In una società così alienata cresce il desiderio di cambiare vita. Abbandonare gli agi della città, la sicurezza dello stipendio fisso per trovare il “buon viver” in campagna, lontano dal frastuono caotico della città. Uno spazio in cui poter esercitare la propria creatività libera e spontanea, dove dare sfogo alla propria fantasia. Cercare la propria autosufficienza sia materiale che psicologica. Autodeterminarsi con tutti i rischi e le responsabilità che esso comporta. Dare un senso alla propria vita non è più una prerogativa di pochi hippie sognatori e visionari, ma è diventata una necessità impellente per non ammalarsi di inedia e di solitudine.


Quali sono le difficoltà che incontrate?


Le difficoltà sono di duplice natura, una interna all’individuo e alla comunità, l’altra in confronto con l’esterno giudicante e arrogante (per fortuna non è tutto così, c’è anche chi condivide). Il nemico interno è quello più difficile da scardinare poiché è la coltura, l’ambiente in cui siamo immersi condizionati fin da piccoli con un’educazione forzata nella famiglia, nella scuola, nella società che reprime il nostro istinto primordiale di libertà. Descolarizzarsi, riprogrammarsi nuovi e autentici è nostro compito per stare bene e poter aiutare gli altri. Poi vengono le relazioni all’interno della comunità in cui proietti le tue insoddisfazioni, le tue frustrazioni. E vengono a galla le nostre ferite di cui attribuiamo agli altri la colpa. Uscire da questa dinamica è un lavoro da fare su sé stessi e la comunità è il luogo ideale in cui crescere poiché hai una moltitudine di persone che ti fanno da specchio. 


Cosa si dice di voi e vorresti avere la possibilità di smentire?


Di noi si dice di tutto, più che altro per destare curiosità in modo da avere più ascoltatori. Quindi hanno scritto che mangiamo solo bacche e radici, pratichiamo l’amore libero e promiscuo, siamo andati a vivere nei boschi per coltivare la marijuana. Si denigrano da soli poiché la realtà è un’altra e ci sono migliaia di testimonianze della gente che ci è venuta a trovare e che ha visto quel che abbiamo fatto coltivando terre abbandonate, riedificando le case che prima erano distrutte. 


Mario Cecchi


Qual è l’approccio degli Elfi alla marijuana?


In un clima di libertà ognuno è libero di scegliere. Il proibizionismo non porta a nulla di positivo, serve a incrementare il lucro di chi ci specula sopra. Coltivare le piante per uso personale è la cosa da fare. Per questo abbiamo collezionato diverse denunce. Invece che autodenunciarci tutti pubblicamente e farne una battaglia di principio abbiamo optato per la difesa ognuno per conto proprio. I tempi non erano maturi, eravamo in pochi a parlare di liberalizzazione. Oggi il muro dell’omertà e dell’ipocrisia deve cadere.


Come vi tenete informati su ciò che accade nel mondo?


Siamo fuori dal mondo perché viviamo un’altra realtà, perché siamo consapevoli che non può esistere la nostra totale felicità se il mondo là fuori è vittima della guerra, della paura o della pandemia. Hanno bisogno del terrore per tenere schiava la gente e questo la creano con le notizie allarmanti e sconvolgenti. Il gioco ormai è risaputo, quindi non occorre leggere i giornali o guardare la televisione per informarsi su quello che succede poiché se leggi il giornale di qualche anno fa le notizie sono sempre le stesse, solo che invece della guerra in Ucraina c’era la guerra in Iraq. Coloro che non si piegano al potere dell’imperialismo vengono comprati o vengono annientati.


Che rapporto avete con la tecnologia?


All’inizio tutti i lavori venivano fatti a mano: zappare la terra, falciare i campi, fare la legna, trebbiare il grano. Era fondamentale la coesione del gruppo: alzarsi presto la mattina, suonare il corno per dare la sveglia, una colazione frugale e poi tutti insieme nei campi. Che pace, che armonia. Poi sono nati diversi bambini in rapida successione ed è diventato prioritario il tempo da dedicare a loro, la mancanza di braccia nel campo si è fatta sentire e a malincuore abbiamo accettato il dono di un trattore. È stata una svolta nel lavoro, uno da solo faceva quello che prima facevamo in 20 persone ma addio ai ritmi naturali, alla condivisione del lavoro. Da lì è cominciata la dipendenza dalle macchine: motosega, motofalciatrice, erpice, aratro, … petrolio. Si è persa la purezza del rapporto con la natura, la magia del bosco. È iniziata l’escalation dei bisogni, dipendenze dai fattori esterni, dal denaro, una catena senza fine. 

Qual è la cosa che ti rende più felice della vita nella valle?
È vedere i figli crescere con il senso di comunità già incarnato. Sono andati nel mondo, hanno cercato il loro spazio, hanno creato la loro tribù, si sono resi autosufficienti, dimostrano di sapersela cavare da soli, hanno generato figli… vivono insieme all’estero dove hanno trovato migliori condizioni di vita, meno burocrazia e più libertà. Solo qualcuno è rimasto in valle con lo spirito contadino. Sono contento che abbiano scelto la loro vita, non per forza uguale alla nostra, ma il seme è lo stesso solo che germogliato da un’altra parte. 

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