di Luciano Bolzoni
TROPPO PRESTO
(In direzione ostinata e contraria)
mi chiedo se questi cambiamenti
ti abbiano lasciato almeno una cicatrice
come tutti i cerchi in fiamme del fuoco
che io e te abbiamo attraversato
Funeral for a friend (Elton John/Bernie Taupin)
La frana emotiva che ci ha investito in questi giorni in cui abbiamo assistito alla coincidente rinascita e alla immediata fulminea ri-scomparsa – definitiva (ma forse no) – dell’Angelo Bowie mi ha fatto venir voglia di aggiungere qualcosa di mio alle tante voci che hanno accompagnato questo allontanamento dalla scena di un protagonista della nostra vita di sempre.
L’allontanamento è giunto inaspettato e non è sicuramente paragonabile ad altri. Non è scomparso solamente un cantante, un musicista, ma un modo di esprimere quello strano gioco dell’uomo che si chiama arte (e non solo). Scusate se mi fermo a questa banalità e non cito tutto il resto. Per ora non serve. Che piaccia o no a quel sacco di aridità mostrato nei social di chi non ha gradito o che solamente non è in grado di capire (peggio ancora) la forza di questa valanga di reazioni che si è manifestata ovunque, dall’inchiostro della carta all’etere dei social fino alle televisioni che hanno imbastito orribili trasmissioni infarcite di testimonianze e vecchi videoclip, questo è ciò che si è liberamente manifestato: una fragorosa testimonianza di emozione, forza, disperazione ma anche di conferma e di dubbio. Una frana emotiva appunto. Poco lacrimosa a dire il vero a conferma non solo dell’amore e del trasporto nei confronti di un proprio “idolo” (sia chiaro, David non era questo bensì ben altro, molto altro) ma del valore sottopelle che David Bowie ha suscitato in noi, artista entrato piuttosto rumorosamente nella storia della società, attraverso i tanti lati dell’esistenza culturale di un mondo che, nel secolo scorso, aveva a disposizione tanto tempo per modificarsi e che, piuttosto, nel ventennio del dopoguerra, lo fece talmente repentinamente da gettare delle fondamenta indistruttibili della cultura che verrà.
Bowie era qui da tempo, da molto tempo, da ere intere attraversate con gesti eleganti e spesso arroganti, tempi in cui, praticamente tutte la messe di prove che ha sperimentato (eccetto forse le prime esperienze con The Lower Third), hanno dimostrato un evidente e costante gioco di anticipazione rispetto alla solita ansia di conferma che usualmente insegue un artista, in una continua ed ostinata contraddizione dei risultati raggiunti. Prendiamo solo la finta scomparsa di Ziggy dopo il noto concerto in cui si dilegua vestito da pagliaccio e riappare qualche tempo dopo abbigliato con il doppiopetto. E tutto in tempi di glam, dove le pedane abbondavano di zatteroni (Bolan insegna a Bowie, Bowie agli altri…) portati da Slade e Sweet che cantavano titoli appropriati all’abbigliamento che indossavano: Chop chop, Poppa joe o Wig Wag Bam.
Bowie si ferma e riparte in altra direzione.
Viene da dire: in direzione ostinata e contraria, come dichiarava polemicamente Faber, guarda caso anche lui scomparso l’11 gennaio.
Negi ultimi anni Bowie si era un po’ allontanato da noi ma non noi da lui. Forse ci era anche un po’ presente dopo l’apparizione del suo non banale problema cardiaco, occorso su un palco nel 2004, che lo ha allontanato in maniera quasi definitivo dalle scene. Ma ai miti non vengono infarti. Alle stelle non è permesso ammalarsi. Abbiamo quindi accettato di sopportare la sua umana decisione di centellinare le proposte che, dal 2004 ad oggi, oltre a mostrarlo un po’ troppo invecchiato – ma anche le stelle invecchiano, Neil & Pete ne sanno qualcosa, avendo giocato entrambi con i termini ruggine, polvere e fuoco – hanno prodotto piuttosto poco. Umano, logico, conseguente. Dal momento in cui si stava fermando il suo cuore Bowie ha elargito qualche sparuta apparizione su un palco non suo e il solo The next day del 2013 più la raccolta Nothing has changed che già conteneva Sue, rifatta anche per Blackstar, oltre ovviamente alle immancabili stampe e ristampe, in linea con tutti i suoi colleghi, Stones in testa, prodotti che non potendo più riempire le vetrine dei pochi negozi musicali rimasti, almeno arredano le polverose teche dei collezionisti musicali (come me d’altronde).
Certo che lunedì mattina, un po’ prima delle 8, è sembrato tutto uno scherzo o un artificio di marketing, ma orchestrato per cosa poi? Per vendere qualche cd in più? Impossibile e completamente infruttuoso. Quindi l’11 gennaio è stata un’orrenda giornata in cui siamo stati costretti a rioccuparci di lui, solo una manciata di ore dopo l’uscita del suo nuovo disco, Blackstar, già additato come un capolavoro prima e come documento testamentale poi.
Ma chissà se Bowie pensava a questo. Io non credo. Io non ci credo.
Ma Bowie se ne è andato per davvero e, come qualcuno ha scritto senza ironia, probabilmente sono venuti a riprenderselo da un remoto lassù. Forse si è solo allontanato, ma non lo vedo entrare semplicemente nella lista dei “tanti”, troppi rocker che assumono un diverso rilievo e significato a seguito della loro dipartita. Solo pochi giorni fa Lemmy. Chissà se si conoscevano…
Quindi è molto difficile raccontare come mai siamo così smossi. Quasi impossibile.
David Bowie, la rockstar con il panfilo a Portofino, la stessa rockstar che legge ai bimbi di Mustique un libro illustrato, seduto con loro sulla scalinata della scuola, non era solo una “stella” (del rock e più). Era anche un sottile intenditore dell’animo umano quando rapportato alle qualità artistiche di un individuo, di un gruppo, di un movimento. Anche di una danza. Era un valutatore. Un anticipatore. Era mittente e committente al tempo stesso di un mondo musicale che, al tempo, non andava solo guidato ma anche interpretato.
Bowie non era un semplicemente un talent scout come qualcuno pensa e scrive ma piuttosto una sorta di affabile signore dedito alla riscoperta (più che alla scoperta) di talenti impolverati e stanchi prima del tempo, si pensi solo al rilancio di Reed e di Iggy, episodi passati semplicemente riaffermando l’identità di uno stile e non già attraverso l’esportazione forzata del proprio: il solo ascolto oggi di Raw power di Iggy and The Stooges (così era riportato sulla copertina del lp: proprio così) fa intendere quali fossero le intenzioni di basi del progetto cioè riaffermare in modo perentorio e disordinato quale fosse lo stile pre-punk degli Stooges e del loro capo e, non a caso, RP è un prodotto musicale che si fatica ad ascoltare anche oggi, che colpisce e stordisce già dal primo riff, grezzo fino all’assurdo, nonostante la produzione di Bowie e le potenzialità dei mezzi tecnici raggiunti allora, si pensi solo alla qualità sonora di Pin Ups, uscito nello stesso anno. Questo fece David: raccolse quella che era l’assurda esistenza di Iggy Pop e la tradusse in musica. Il caos divenne cultura. Search and destroy!
Bowie capì in anticipo di avere le qualità non solo per anticipare quello che verrà in tema musicale ma, per fortuna sua (e nostra), decise di essere prima di tutto un musicista, un rocker innanzitutto. Non solamente, certo, ma, ripeto, l’uomo scelse un mestiere che aprì definitivamente una voragine nella cultura musicale dell’epoca, certo non solo in quella ma, rispetto agli Stones e agli Who ad esempio, che fecero loro la musica popolare americana (dal blues al soul) reinterpretandola, lui andò oltre con una testarda voglia di gettare all’aria ogni volta il tavolo. Soprattutto dopo i successi.
Esempi? La famosa trilogia berlinese che troppo a torto viene considerata omogenea per la compagine artistica che l’ha licenziata ed il luogo di lavoro scelto (Low ed Heroes sono cosa assolutamente differente da Lodger) ma che non lo è affatto e che viene alla luce mentre a Londra imperava l’iconoclastia rock del punk. E nello stesso periodo richiama a sé Iggy e al posto di lanciarlo come padrino del punk (The Punk and the Godfather?), era ovvio e facile dopo Raw Power, il posto era suo di diritto, lui, il gioiello James, che rischiò di sostituire il Re Lucertola nel suo gruppo, ma cosa fa Bowie? Lo produce due volte nello stesso anno (1977) con due capolavori di pop simil-elettronico The idiot e Lust for life. Zero punk. Forse neanche un riff di rock’n’roll. Funtime!
Bowie influenza tutti o quasi. Inoltre rubacchia qui è là. Jaguar ne sa qualcosa. Mai presentare un disegnatore a Bowie prima di averlo utilizzato…
Dalla produzione alla partecipazione il passo è piuttosto breve… Alcuni nomi nella sua orbita? Divento volutamente il più banale dei compilatori: King Crimson & Fripp, Roxy Music, Brian Eno, Adrian Belew, Queen; ma la lista si allunga e arriva ai Nine Inch Nails, ai Pet Shop Boys – sì anche loro! – agli Arcade Fire passando per gli axemen Peter Frampton, Earl Slick, Mick Ronson, Steve Ray Vaughan, Carlos Alomar. E John Lennon, mica poco. E Nile Rodgers. E arriviamo al batterista dei Weather Report. Ma anche gli Stones, sì pure loro, con cui David imbastisce nella casa di Wood la struttura corale di It’s only rock’n’roll. Ma anche Pete Townshend un paio di volte, ricordo Because you’re young di Scary monsters e probabilmente Slow burn in Heathen.
In tema di influenza è meglio evitare sbagli ed omissioni. E, per pietà e disistima, evito inoltre di citare qui ridicoli artisti nostrani a dir loro “bowiani”, colorati quanto inutili: non arrivo a tanto, non potrei.
E mentre si occupava di altri o con altri collaborava, Bowie continuava a fabbricare la sua scatola emotiva in modo preciso ma neanche tanto pazientemente, spaziando letteralmente in aree non ancora percorse dal mondo capendo, prima degli altri, molto ma molto prima, quale fosse in quel momento la strada precisa da percorrere. Ma la strada poteva anche non essere precisa. Poteva anche rivelarsi fuori meta: vedi Tonight del 1984, Never let me down del 1987 oppure Black tie white noise del 1997. Piccoli gioielli per chi scrive. Poco o nulla per i più.
Tralasciamo i capolavori. A che servirebbe citarli?
L’11 mattina il destino o più semplicemente l’influenza provocata dall’uscita di Blackstar di qualche giorno prima mi ha suggerito di ascoltare Bowie (il live On air) proprio quando la notizia mi ha raggiunto, ha raggiunto tutti. Un tempo l’avremmo saputo da un rai-giornale o alla sera dal telegiornale televisivo, seduti a tavola.
E ora è facile parlare e straparlare di Blackstar. E andiamo allora con la mente a qualche attimo prima dell’atto finale dell’11 gennaio e torniamo ai giorni che precedono il compleanno di Bowie, data opzionata da tempo per far uscire il disco, che fa comodo adesso trasformare in un testamento, “Blackstar: Bowie trasforma la propria morte in un'opera d'arte” tuona un giornale provinciale italiano, come se adesso ci fosse bisogno, tanto per cambiare, dell’ennesima nuova notizia, non importa se bella o pessima, che sia in grado di far virare l’uscita discografica di uno dei pochi sopravvissuti del tempio del rock’n’roll sulla strada dell’ennesimo capitolo di una saga che vuole ora e sempre trasformare una notizia in una bomba. E di bombe di questi tempi non ne sentiamo proprio il bisogno.
Allora facciamolo subito, diciamo che il disco non è un capolavoro e non è il suo (ultimo) capolavoro. Ci mancherebbe. Come potrebbe? E’ un disco quasi jazzato e quasi non vuol dire tutto, suonato da splendidi ed algidi musicisti del panorama newyorkese (pare) assoldati di recente. Prodotto dall’amico Tony. Un bel disco, cupo (poi ora ancora di più) ma non è Station to station, assolutamente, pur contenendo buoni pezzi come Lazarus e Dollar days e la stessa title track.
Ma è un suo disco. E’ il suo ultimo disco. E tanto mi basta. E temo che a dispetto della cascata discografica che seguirà, qui ci dobbiamo fermare.
Non mi interessa trasformare un disco in un epitaffio anche se lo è. Non ne sono capace.
Arrivata da poco la notizia dell’avvenuta cremazione di Bowie che diventa un non-funerale. C'era da aspettarselo.
Ashes to ashes ovviamente.
Da qualche parte qualcuno mi chiama/Quando le carte sono in tavola/Sono solo un viaggiatore/Forse è solo un inganno della mente, ma in qualche posto c'è un cielo al mattino/Più blu degli occhi suoi/In qualche posto c'è un oceano innocente e selvaggio.
(Move on, 1979).
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