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Sotto il sole dell’Esposizione universale ogni giorno ha la sua pena e la sua polemica. Tra le ultime arrivate ad arricchire lo sterminato elenco: gli strascichi del durissimo scontro tra l’amministratore delegato di Expo spa e l’avvocato Domenico Aiello, difensore del Governatore Maroni nei procedimenti giudiziari riguardanti proprio l’Expo e da pochi giorni nominato dallo stesso Presidente della Regione membro del cda della società guidata da Sala, innescando un conflitto d’interessi ad alto potenziale; la campagna contro i giovani troppo choosy per accettare i contratti temporanei offerti da Expo, condita dalla sapiente manipolazione di cifre tesa a dimostrare che l’Esposizione è un’ottima occasione anche dal punto di vista lavorativo che solo i bamboccioni viziati non sono disposti a cogliere. Sullo sfondo l’immancabile bollettino dei ritardi confermati dallo stesso Sala: ad una settimana dall’inaugurazione sono pronti solo 30 padiglioni su 54.
Eppure bisogna domandarsi se l’incessante succedersi di episodi e polemiche che hanno oscurato il senso dell’Expo abbiano ragioni più profonde delle beghe politiche che hanno contraddistinto la fase preparatoria tra il 2008 e il 2011, della disorganizzazione, dell’ottimismo sbandierato e destinato a sgretolarsi sempre più con l’avvicinarsi dell’1 maggio 2015, della purtroppo consueta tendenza a trasformare ogni opera pubblica in occasione di malaffare.
Sin dall’inizio il treno di Expo fu instradato su un binario sbagliato, impossibile quindi che la destinazione finale fosse quella giusta, cioè quella definita dallo quello slogan –“nutrire il pianeta”– che avrebbe dovuto essere più che una trovata di marketing, più di una cornice per una vetrina di un milione di metri quadrati.
Fin dal 31 marzo 2008, quando il BIE assegnò l’Esposizione universale 2015 a Milano, il dibattito si è concentrato sulle ipotetiche –ma spesso presentate come indubitabili certezze– ricadute economiche dell’iniziativa: posti di lavoro, indotto turistico, infrastrutture, addirittura il valore del solo brand Expo. La logica del grande evento svincolato dalla sua finalità dichiarata si era impossessata della realtà, o meglio, era diventata una proiezione delle speranze, degli appetiti e di quella che sembrava l’unica via possibile per costruire un raccordo stradale, una linea metropolitana o contare qualche migliaio di posti di lavoro.
Se anche fosse tutto filato liscio, se anche non si fossero accumulati clamorosi ritardi nei cantieri del sito espositivo e nelle opere infrastrutturali connesse (senza contare quelle promesse e mai realizzate, a partire dalla fantomatica sesta linea della metropolitana), se anche non si fosse registrato il benché minimo caso di corruzione, se anche le positive ricadute economiche per il territorio si fossero rivelate in linea con quelle annunciate, inquadrare l’Expo in quella prospettiva lo aveva di per sé svuotato il senso.
Pensare a ciò che avrebbe potuto essere un’Esposizione diffusa nella città, capace di riutilizzarne i luoghi esistenti indicando prospettive di sostenibilità per le aree urbane coerentemente con il tema della nutrizione e di un governo condiviso delle risorse, non è solo esercizio di buone intenzioni coniugate al passato. Pensare ad un’Expo che disseminato sull’intera area metropolitana facendone un modello per il futuro (peraltro nel comune agricolo più esteso d’Europa) è quello che avrebbe dovuto e potuto essere.
Ad una settimana dall’inaugurazione di Expo si tratta solo di un condizionale passato, eppure l’indicativo presente e futuro non lasciano spazio a troppe speranze, neppure nella prospettiva di quella lettura “economicista” che di fatto ha minato l’Esposizione 2015 fin dalla sua nascita.
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