Luca Casarini e il ricordo di Papa Francesco: «Era fuori dagli schemi, abbiamo riso e pianto insieme. Ci disse "il mondo è in preda a un delirio di orrore, non so più che cosa fare"»
di Martina Zambon
L'ex leader dei no global e attivista di Mediterranea parla del rapporto con Bergoglio: «Gli regalammo una croce con un giubbotto di salvataggio di un migrante morto, la mise fuori dal palazzo Apostolico»
Il veneziano Luca Casarini, già leader del movimento no Global negli anni Novanta, da tempo è impegnato con la ong Mediterranea per il salvataggio dei migranti che tentano di approdare lungo le coste italiane. «L’unica ong con un cappellano a bordo» specifica Casarini che con papa Francesco, morto lunedì 21 aprile in Vaticano , aveva instaurato un rapporto stretto, personale. Al punto da scrivere un post social in cui ammette, dopo la scomparsa del Santo Padre, di «sentirsi solo».
Come ha conosciuto il pontefice?
«È stato verso la fine del 2019, a novembre. Con l’equipaggio di Mediterranea abbiamo avuto un primo incontro con Francesco. Ci ha voluto conoscere e ci ha invitati a Santa Marta, a casa sua. Con noi c’era don Mattia Ferrari, il nostro cappellano di bordo. La vicinanza con il Papa era già molto concreta anche per via di quel sacerdote a bordo, il primo a collaborare con una ong. È un incontro che non posso dimenticare, meraviglioso, è stata la prima volta in cui l’ho visto di persona e in cui gli ho potuto parlare. Per me, per tutti noi, è stata una cosa enorme. Ci siamo trovati davanti una persona straripante di umanità. Immediatamente ti “interrogava” e faceva sì che tu interrogassi te stesso».
Che altro l’ha colpita?
«Era un uomo fuori dagli schemi, nessuna ritualità, era davvero curioso, interessato a conoscere e per questo chiedeva, poneva molte domande. È stato davvero un grande incontro, e ciò che porterò sempre con me è come si è presentato. Entrando ci ha detto: “Io non so più cosa fare, ditemi voi cosa devo fare, il mondo è in preda a un delirio di orrore, ogni giorno vedo il male che gli uomini possono infliggere ai loro fratelli”. Io ho risposto: “Santo Padre, continua a fare quello che stai facendo”».
In quell’occasione voi portaste una croce come dono, che fine ha fatto?
«Era una croce in vetroresina alta due metri con un life jacket, un giubbetto di salvataggio appeso al centro, recuperato dopo un naufragio e quindi appartenuto, probabilmente, a un migrante che nel Mar Mediterraneo è morto. Sulla croce ci sono scritte le coordinate di quel naufragio. Papa Francesco ha voluto appendere quella croce all’ingresso del Palazzo Apostolico. Ha detto: “tutte le persone importanti la devono vedere…anzi, devono sbatterci contro”».
Che parte ha avuto papa Francesco nel suo percorso di riavvicinamento alla fede?
«Lui ha giocato sicuramente un ruolo importante, è stato uno dei grandi motivi del mio ritorno a una tensione interiore. Una tensione che ho avuto fin da piccolo, fino ai 12 anni. Ho visto Francesco con altre persone, con migranti, rifugiati, lui ti segnava, ti cambiava la vita, era troppo forte l’intensità con cui affrontava il tema della relazione. E poi aveva un modo di fare incredibile, fuori da qualsiasi ritualità gerarchica. Era una persona che ci credeva profondamente e agiva di conseguenza, dal suo ruolo di Papa e quindi con tutta la consapevolezza di avere una responsabilità ma allo stesso tempo era anche profondamente umano e vicino all’ultimo degli ultimi. Lui è stato uno dei motivi per me, Mediterranea e ciò che sto facendo in mare è stato un altro fattore. La prima volta in mare ha aperto in me grandi riflessioni sul senso della vita, sulla spiritualità, sulla figura di Dio e di Gesù Cristo soprattutto, che ritrovi negli ultimi».
Che cosa di Francesco l’ha convinta profondamente?
«Lui era un Papa dei fatti, le parole le faceva uscire ancorate a una pratica concreta, il nostro rapporto è sempre stato così: un discutere sulle parole, sulle Scritture ma da condizioni concrete dell’umano. Ci si poneva il problema di rendere “pratiche” quelle parole. Si discuteva sulla forza dell’amore e poi, insieme, su come andare in Tunisia per soccorrere i deportati nel deserto. Concordavamo sul fatto che l’amore non è un sentimento docile ma sfida anche le leggi costituite se serve. Ecco, lui era uno che usava con attenzione le parole, ci spronava a pescare quanto di buono c’è nella poesia, nell’arte, nella musica per rispondere alla domanda “Che ci faccio io qui?”. Ma era uno che riusciva, nello stesso momento, a dare potenza enorme alla parola ancorandola ai fatti».
Quante volte vi siete visti in questi anni?
«Almeno una decina».
Francesco era un uomo dalle battute fulminanti, più risate o più serietà durante quegli incontri?
«Scherzava spesso, rideva sempre, era anche molto autoironico ma, in realtà, è stato un continuo alternarsi tra lacrime e risate. Non dimenticherò le sue lacrime davanti ai segni delle torture di un rifugiato. Negli anni abbiamo riso e pianto insieme».
Il sostegno, anche economico, a Mediterranea da parte del Vaticano ha suscitato non poche polemiche, che ne pensava il Papa?
«Mi disse: “E’ normale, quando facciamo arrabbiare Satana succede questo, ma non preoccupatevi, noi andiamo avanti».
Lei ha usato le parole di Francesco come prefazione al suo libro La cospirazione del bene…
«Gli ho chiesto di poter pubblicare una sua bellissima catechesi “Mare e Deserto” e lui mi ha detto subito di sì».
Cos’è l’ultima cosa che vi siete detti?
«Era novembre, poco prima del suo ricovero e le sue parole sono suonate come un saluto. Avevamo appena chiuso una riunione sul dramma dei rifugiati in Libia e delle deportazioni in Tunisia, eravamo nel suo appartamento. Lui mi ha indicato un quadro che avevamo alle nostre spalle, raffigura una mano che si tende verso un’altra mano che emerge dall’acqua. Mi ha detto: “Vedi? io quello lo vedo ogni mattina a ricordarmi che cosa dobbiamo fare. Poi mi ha chiesto della Mare Ionio (l’imbarcazione per i salvataggi, ndr), di quando saremmo tornati in mare. E mi ha salutato dicendomi “Ricordati di pregare per me”».
E lei ha pregato per lui?
«Sì, e lo faccio ancora. Francesco è dentro di me, è una presenza con cui mi confronterò spesso, sempre».
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