05 novembre 2018
Inizio col botto, giovedì primo novembre, per l’edizione 2018 dell’ormai consolidato JazzMi, il festival milanese dedicato alla musica jazz nelle sue varie forme, capace non solo di attirare un pubblico importante, ma anche di evidenziare la vitalità di una musica che qualche luogo comune ancora descrive invece come imbalsamata, oltre che d’interagire in modo stimolante con il territorio cittadino, sfruttando con intelligenza la sua rete di club, teatri e location assortite. Una formula che, giunta alla sua terza edizione, pare funzionare alla grande. Se ne volete sapere di più sui prossimi appuntamenti, date un’occhiata al sito.
Dicevamo però di un trionfale inizio. E non poteva essere altrimenti se, ad aprire la kermesse, viene chiamata una formazione storica e dall’incontestabile importanza quale l’Art Ensemble Of Chicago, capaci di agguantare con facilità un sold out indubbiamente doveroso.
Arrivati al CRT Teatro dell’Arte, presso la Triennale, il pubblico ha avuto come prima cosa la possibilità di visitare la mostra dedicata alle fotografie del grandeWilliam Claxton, una fascinosissima serie di ritratti scattati durante l’età d’oro del jazz, con protagonisti personaggi del calibro di Duke Ellington, Chet Baker, Ray Charles e molti altri. Bellissima, rimarrà aperta per tutta la durata del JazzMi, senza dubbio un valido modo per entrare da subito nel giusto mood.
Con un pizzico di ritardo, il primo a salire sul palco per una breve introduzione èLuciano Linzi, uno dei due curatori artistici della manifestazione. In realtà, la presentazione vera e propria è affidata all’attore Paolo Rossi il quale, dopo qualche divertente battuta, si è calato nei panni di Martin Luther King leggendo il discorso d’apertura che il reverendo fece per il festival jazz di Berlino nel settembre 1964. Un paio di passaggi meritano di essere anche qui menzionati, per la loro bellezza, per la loro verità, per l’importanza che oggi più che mai hanno: “Il jazz è musica “trionfante”, concentra in sé le sofferenze, e ci permette di superare le difficoltà della vita. È un dono di Dio agli uomini; è un dono della cultura afroamericana a tutta l’umanità. […] Molto prima che gli intellettuali dei nostri tempi scrivessero sull’identità razziale come problema in un mondo multietnico, i musicisti tornavano alle loro radici per affermare ciò che si agitava dentro le loro anime. Tanta energia del nostro movimento per la libertà, è venuta dalla musica. Ci ha rafforzati coi suoi dolci ritmi quando il coraggio ci veniva a mancare. Ci ha calmati con le sue ricche armonie quando avevamo perso fiducia. E adesso il jazz viene esportato nel mondo. Perché nella lotta specifica del nero americano c’è qualcosa in comune con la lotta universale dell’umanità contemporanea. Ciascuno ha il suo blues. Ciascuno anela a un significato. Ciascuno ha bisogno di amare e di essere amato. Ciascuno ha bisogno di battere le mani e di essere felice. Ciascuno ha bisogno di fede. Nella musica, specialmente in questa vasta categoria chiamata jazz, c’è un primo passo verso questi traguardi”.
Con queste parole che ancora galleggiano nell’aria, sale sul palco l’Art Ensemble Of Chicago. Della formazione storica sono rimasti Roscoe Mitchell ai sassofoni eFamoudou Don Moye a batteria e percussioni, ma ovviamente sono di altissimo livello gli altri musicisti che li accompagnano, dal trombettista Hugh Ragin, ai contrabbassi di Jaribu Shahid e Silvia Bolognesi, alle varie percussioni africane diDudu Kouate, fino al violino di una ragazza dalle fattezze orientali della quale non sono riuscito a carpire il nome.
A cinquant’anni dagli esordi, la musica dell’ensemble sa ancora essere priva di compromessi, tutt’altro che facile, capace di congiungere mondi apparentemente lontanissimi. Da sempre per loro il jazz è una musica ibrida in grado di assorbire le influenze più disparate, di prendere il febbricitante fulgore politico del free e mescolarlo con gli ancestrali ritmi dell’Africa, di accostare la libertà dell’improvvisazione con le idee della musica colta d’avanguardia.
Certo, alcuni momenti sono particolarmente ostici, come tutta la prima parte del concerto di stasera, in cui gli strumenti vanno avanti come per strappi, come particelle sparse che arrivano a coagularsi tra loro un passetto alla volta, quasi come se si trattasse di materia informe da plasmare, di voler mettere ordine nel caos imperante.
Pur rimamendo in territori quasi sempre in qualche modo impervi, superata questa prima fase, il resto del concerto si fa meno spigoloso, dando un maggior rilievo ai ritmi percussivi africani, dando vita a più spirituali partiture, dove comunque originalissima e incredibilmente moderna e attuale rimane la mistura e l’idea di suono globale. Chi qui scrive non è certo un esperto di jazz, tutt’al più un randomico appassionato. E se più di tanto nel dettaglio mi è difficile entrare, lo stesso non posso esimermi dal segnalare la potenza di una musica in grado di essere politica e visionaria col solo ausilio del suono e di ciò che esso evoca. Uno dei momenti per me più forti è stato quando a un substrato praticamente cameristico, denso di lirica poesia, un grandissimo Mitchell ha sovrapposto il furioso barrire free di uno dei suoi sax, in un solo assolutamente straordinario, atto quasi a simboleggiare la rabbia sempre pronta ad esplodere anche in momenti di calma apparente.
La loro non è musica che accarezza, non è adatta a titillare le certezze degli ascoltatori, anzi, coi suoi cortocircuiti musicali arriva a mettere in circolo dubbi e riflessioni. Mitchell, l’umanissimo Don Moye e tutti gli altri affermano ogni giorno l’importanza che questa musica ancora è in grado di avere, la stessa di cui parlava Martin Luther King nel suo discorso. Non possiamo che ringraziarli per questo.
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